L’Australia è stata tra i primi Paesi ad adottare un codice che impone ai giganti del web di negoziare con gli editori il pagamento dei contenuti.
Più o meno un anno fa c’era stata l’approvazione definitiva da parte del Parlamento australiano e, ad un anno di distanza, si nota qualche falla.
Effettivamente, stando alla situazione dei media nel continente, i grandi editori non hanno trovato grosse difficoltà a stringere accordi con i principali OTT. Sono i più piccoli, invece, a dover affrontare le difficoltà più importanti.
La protesta
Infatti, sono proprio i piccoli e medi editori, al momento esclusi dai maggiori accordi per la remunerazione dei contenuti, che hanno smesso di pubblicare le loro notizie per protestare contro il mancato pagamento per i loro contenuti.
#WaitingOnZuck, questo l’hashtag che accompagna la protesta di 24 ore. “Noi e i lettori stiamo aspettando che Zuckerberg si sieda al tavolo del negoziato e stipuli accordo commerciali trasparenti, equi, e che paghi per il giornalismo indipendente di qualità”, spiegano gli editori. “L’iniziativa mette in guardia su un futuro senza news indipendenti se gli editori non ottengono un accordo equo e una parità di condizioni”.
La falla
La normativa australiana è quindi in via di revisione da parte del governo di Canberra. Ma qual è il problema? Sembrerebbe che la legge vincoli solo le società che sono state designate come piattaforme tecnologiche dal Tesoro australiano. E né Facebook né Google compaiono nell’elenco.
“I media mainstream hanno in gran parte taciuto sui fallimenti sulla normativa per i media, forse perché la loro lealtà è stata comprata dai giganti dei social media”, ha attaccato un piccolo editore.
Se verranno inseriti nella lista, e quindi designati come piattaforme, allora non avranno possibilità di evitare gli accordi con i media indipendenti.