Il sostegno pubblico – parte VI

Della legge n. 62/2001 tratteremo a parte, perché rappresenta uno sviluppo importante nella definizione di prodotto editoriale, ma non nella disciplina dei contributi pubblici in quanto tali. Estremamente importante è, invece, il D.L. n. 201/2011, convertito con la legge n. 214/2011 che, al fine di contribuire all’obiettivo del pareggio del bilancio entro la fine del 2013, decreta la cessazione del sistema di contribuzione diretta di cui alla legge n. 250/1990.

Nuovi requisiti di accesso ai contributi all’editoria, nuovi criteri di calcolo e liquidazione del contributo, editoria digitale, modernizzazione del sistema di distribuzione e vendita della stampa quotidiana e periodica, attenzione al lavoro giornalistico, erano i principali punti del D.L. n. 63/2012, convertito nella legge n. 103/2012.

Nel quadro di una nuova e più forte stretta economica, in questo decreto viene ribadito, da un lato, il contenimento degli investimenti, dall’altro si pone un’ulteriore stretta ai criteri di erogazione dei contributi, legandoli ad una maggiore effettività di occupazione, distribuzione e vendita e viene fissato un termine finale alla permanenza di tale modello.

Le linee guida a cui si ispirava il  decreto erano:

– nuovi requisiti di accesso ai contributi, in modo da renderli sempre più selettivi;

 – nuove norme sulla rete di distribuzione della stampa quotidiana e periodica;

– nuove definizioni dei contributi diretti ristretti a rimborso di costi controllabili, eliminando tutte le zone d’ombra che in questo settore avevano portato ad utilizzi impropri dei contributi.

Il principale criterio per raggiungere l’obiettivo era la correlazione tra entità dei contributi e vendite effettive delle testate, con un determinante salto rispetto al requisito della legislazione precedente, ed ai livelli di occupazione professionale.

La prima era l’abbassamento al 25% del rapporto tra copie vendute e copie distribuite. I giornali che avrebbero voluto vedersi riconosciuti i contributi avrebbero dovuto vendere almeno il 25% del totale delle proprie copie di tiratura in edicola, escluso lo strillonaggio o le vendite in blocco. In precedenza, per aver accesso alla contribuzione bastava vendere in edicola appena il 15% delle copie.

Per le testate locali, invece, il rapporto tra copie tirate e copie vendute in edicola doveva essere almeno del 35%. Ancora, abbassamento anche del numero di Regioni in cui bisognava distribuire la testata per essere considerati periodico a tiratura nazionale: da 5 regioni a 3.

Il decreto prevedeva novità in vista anche sul fronte della pubblicità online. Tutti i ricavi si facevano rientrare nel paniere dei ricavi del Sic, il Sistema integrato di comunicazioni, su cui si calcola anche il tetto ‘anti posizioni dominanti’ del 20%.

Inoltre, veniva previsto che le concessionarie di pubblicità sul web dovessero essere iscritte nel Registro degli Operatori di Comunicazione (ROC), per una maggior trasparenza. Cambiavano le regole anche per le cooperative editrici, le quali, per accedere ai contributi pubblici, dovevano garantire il fatto di essere composte esclusivamente da giornalisti, poligrafici, grafici editoriali con prevalenza di giornalisti e di avere la maggioranza dei soci dipendente della cooperativa con contratto a tempo indeterminato.

Per il resto, il requisito occupazionale prevedeva che le società editrici di testate quotidiane avessero almeno 5 dipendenti con contratto a tempo indeterminato per l’intero esercizio di riferimento, mentre per le testate periodiche tali dipendenti scendevano a 3.

I giornalisti «diventano essenziali anche per la misurazione del contributo. I giornali senza i giornalisti non ci saranno più e non potranno avere il contributo. Dovranno avere un minimo di giornalisti, ma soprattutto la misura del contributo sarà legata all’occupazione» [1].

Criteri, quindi, di trasparenza e di qualificazione professionale misurata ed espressa attraverso il lavoro giornalistico, regolarmente inquadrato secondo contratto collettivo, diritto del lavoro e obblighi previdenziali.

La riforma-non riforma che il decreto mise in moto era, per alcuni versi, troppo selettiva. Le poche risorse che erano a disposizione venivano distribuite in modo trasparente e controllabile, sì, ma senza tener conto delle tante voci della piccola e media editoria, voci importanti sul territorio che però non erano (e non sono) organizzate in forma di cooperativa, e che erano, comunque, a scopo di lucro.

L’unica cosa positiva fu l’attenzione al digitale, un’attenzione timida che iniziava con il riconoscere a tutte le testate, periodiche e quotidiane, che avevano i contributi, la facoltà di passare al digitale, non perdendo tale contributo. Il disegno di legge tentava di innovare il sistema di aiuti all’editoria, ma senza molti risultati, lasciava completamente fuori, ancora, o ci prova solo a parole, nuove fattispecie di imprese da sostenere come le ‘start up’, nuove iniziative imprenditoriali, sempre sull’editoria digitale, multimediale e innovazione.

Dopo il 2012, la crisi del sistema editoriale si fa sempre più profonda ed è testimoniata, in particolare, dalla riduzione costante delle copie vendute e dalla caduta degli investimenti pubblicitari, una percentuale che supera per entrambi il 20%.

Si assiste, inoltre, alla costante contrazione delle risorse pubbliche destinate alle politiche per l’editoria. In questo contesto, si sente la necessità di un intervento normativo che dia sostegno diretto soprattutto alla piccola editoria, meno strutturata industrialmente, ma più presente nelle realtà territoriali locali, con testate che costituiscono spesso la voce alternativa rispetto a quella dei giornali nazionali, concreta espressione del pluralismo dell’informazione, riconosciuto e tutelato dalla Costituzione.


[1] A. Di Amato, Osservazioni sul decreto legge n. 63/2012 in Diritto ed economia dei mezzi di comunicazione, 3, 2012.