In occasione della giornata mondiale della libertà di stampa pubblichiamo un breve studio sui fondamenti storici e filosofici della stessa.
Comprendere quali siano le diverse concezioni riguardanti l’esercizio di tale libertà, sul fondamento condiviso da tutti che la libertà di espressione sia un diritto naturale dell’uomo e debba trovare solo riconoscimento e non autorizzazione nelle leggi fondamentali, potrà aiutare a regolamentare nella maniera più corretta l’attività di informazione in generale e le nuove tecnologie in particolare, a patto che nelle varie argomentazioni a sostegno di una o di un’altra tesi, non manchi il requisito fondamentale di ogni comportamento veramente etico dell’uomo: la buona fede.
Uno dei pericoli veri che corre la libertà di espressione, informazione e stampa è quello di essere regolamentata sulla base di asserite necessità “etiche” che in realtà potrebbero nascondere precisi interessi. I veri nemici della libertà di stampa sono rappresentati, in occidente, dal monopolio e dalle posizioni dominanti sia che riguardino i mezzi di produzione, sia che riguardino l’orientamento del pensiero e quindi della formazione dell’opinione pubblica. Da questi rischi dovremmo guardarci, per evitare di dover vivere in uno stato di apparente libertà, di fatto condizionato dal pensiero dominante, che sia politico, sociale, religioso. Di questi rischi abbiamo precisi riscontri ogni giorno sui mezzi di informazione.
La stampa a caratteri mobili è una delle invenzioni che hanno cambiato la storia dell’umanità. A metterla a punto, attorno alla metà del Quattrocento, fu l’incisore e orafo tedesco Johann Gensfleisch, detto Gutenberg dal paese d’origine dei genitori. La novità stava nel fatto che i caratteri fossero appunto «mobili», ovvero smontabili e ricomponibili in testi diversi e ciò rendeva possibile preparare pagine da riprodurre a stampa in tempi molto brevi. Fu questa la prima grande cesura tecnologica della storia nello sviluppo dei mezzi di comunicazione, tanto che Francis Bacon annoverava la stampa, insieme alla bussola e alla polvere da sparo, tra le invenzioni che hanno posto fine al Medioevo ed aperto una nuova epoca [1].
La stampa attirò subito le attenzioni delle autorità civili e religiose, che videro in essa un nuovo e straordinario strumento da utilizzare a proprio vantaggio ma soprattutto una potenziale minaccia, a causa della sua capacità di diffondere tra la popolazione idee e informazioni indesiderate. Pertanto, il potere creò e istituzionalizzò, nei confronti della stampa, un sistema di controllo rigido e basato su due pilastri: il privilegio e la censura.
Fino alle grandi rivoluzioni borghesi di fine Settecento, quasi ovunque l’attività di stampa non fu infatti considerata libera: esercitarla non era un diritto, ma un «privilegio» concesso dal Sovrano a proprio piacimento. La possibilità di praticarla derivava dunque dal rilascio di un’autorizzazione, una “licenza”, che veniva assegnata a un numero ristretto e selezionato di individui. Non solo. Tutto ciò che veniva pubblicato doveva essere sottoposto al controllo di organi deputati (tendenzialmente formati da intellettuali e molto spesso da ecclesiastici), che potevano impedire la pubblicazione quando i contenuti venivano giudicati inopportuni per motivi politici o religiosi. A questa censura preventiva istituzionale si affiancava una eventuale censura successiva alla pubblicazione. La punizione per lo stampatore, ritenuto per qualsiasi motivo colpevole, poteva andare dalla sospensione alla revoca del privilegio, dal carcere al supplizio e anche alla morte.
Questo rimase il quadro giuridico di base in cui si collocò l’attività pubblicistica nell’Ancien Régime. Esso assunse forme parzialmente diverse da un paese all’altro, venne meno soltanto con l’avvento delle rivoluzioni liberali e la conseguente affermazione della libertà di stampa come diritto inalienabile dei cittadini. Del resto, il progresso della libertà di stampa e lo sviluppo di un’opinione pubblica dovettero legarsi inevitabilmente anche al graduale trasformarsi degli Stati in senso democratico. Una libera circolazione di notizie e opinioni ha senso ed è funzionale solo in un contesto politico che preveda la partecipazione attiva dei cittadini.
Nell’Europa centro-settentrionale lo sviluppo della stampa si intrecciò con la diffusione della Riforma protestante e questo contribuì a generare una progressiva divaricazione tra mondo tedesco-anglosassone e mondo latino, anche per quanto riguardava la fisionomia futura dell’attività giornalistica. Nei paesi dove prevalse la Riforma, l’affermazione dell’etica protestante interagì con le condizioni sociali, politiche ed economiche nel creare circostanze favorevoli alla crescita di una stampa indipendente e di un mercato editoriale capace di sostenerla.
Nei paesi cattolici, invece, la Controriforma impose una rigida censura finalizzata a impedire il diffondersi dell’“eresia” venuta dal Nord. Tutto ciò contribuì a inibire l’alfabetizzazione del popolo, a rallentare l’affermazione di una mentalità più moderna, aperta e dinamica. A ciò si aggiunga che nei paesi cattolici tesero a prevalere forme di potere assolutistico più rigide, centralizzate e oppressive e si comprenderà come, in termini estremamente generali, il mondo cattolico sia stato un contesto decisamente meno favorevole allo sviluppo non solo di un vigoroso mercato dell’informazione ma anche del principio stesso di una stampa che rispondesse a un pubblico formato soprattutto dai cittadini piuttosto che dal potere costituito.[2]
A metà del Seicento, due tra i più importanti filosofi della politica europea, Hobbes e Spinoza, si interrogarono sulla libertà di espressione, indagando, seppur in modo opposto, il rapporto tra potere politico e parola scritta, ovvero il tema della censura. Infatti, formularono prospettive contrastanti, che derivavano da visioni opposte sulla società e sullo Stato.[3]
Nel Leviatano (1651) Hobbes riassunse tutte le ragioni per cui fosse corretta una limitazione della libertà di parola e della libera comunicazione. L’esperienza della guerra civile inglese dimostrava come i libri avessero ispirato amore per il governo democratico e avessero incoraggiato la sedizione. Secondo Hobbes, il contratto sociale consegna esplicitamente al sovrano tutti i diritti di cui l’essere umano gode nello stato di natura, tra cui anche quello di criticare le decisioni del sovrano stesso; sostenendo che spetta al sovrano stabilire quali opinioni e quali dottrine sono avverse e quali favorevoli alla pace. La censura preventiva, dunque, appare connaturata allo Stato pacificato in ragione del contratto sociale. Lo stesso vale per le dottrine incompatibili con la Chiesa ufficiale perché ostacolano le operazioni dell’unico potere legittimo: dal momento che le confessioni discordanti non sono ammesse, la loro espressione pubblica va soffocata. A sostegno di questa sua tesi, Hobbes fa un’analisi della natura stessa del discorso e della comunicazione: la stampa in quanto tale non richiede controllo specifico, ma il linguaggio – dopo la scomparsa della lingua originale consegnata da Dio nell’atto della creazione – è ricco di ambiguità che minacciano la coesione sociale. Il linguaggio è intrinseco alla società civilizzata ma i suoi abusi sono pericolosi. Per aumentare la conoscenza e per il bene del genere umano è necessario quindi purificare il linguaggio. Secondo Hobbes, le parole ambigue e prive di senso sono come fuochi fatui: ragionare su di esse è come perdersi tra le assurdità, e la loro conseguenza è la rivolta o la contesa. Più che controllare la circolazione di libri sediziosi, i governi dovrebbero controllare l’uso delle parole. Tale responsabilità del governo si estende sino alla creazione del linguaggio e dei princìpi scientifici da insegnare nelle università. La censura dei testi che minacciano la pace è, in realtà, un compito che rientra in una più ampia strategia del sovrano volta a dirigere la circolazione delle idee attraverso l’istruzione e la creazione di un linguaggio accettato e accettabile per tenere sotto controllo la stampa.[4]
Spinoza, al contrario, nel Trattato teologico-politico, argomenta a favore della libertà di linguaggio, partendo dall’idea che il linguaggio sia uno strumento per realizzare il fine ultimo dello Stato, che non è la pace, come era per Hobbes, ma la libertà. Nella sua difesa della libertà di pensiero ed espressione, infatti, egli anticipa i tempi, in quanto ritiene che queste libertà costituiscano criteri di legittimità e di buona salute del sistema politico. La libertà d’espressione costituisce un criterio di legittimità del sistema politico perché, se lo Stato intervenisse nell’ambito di tale libertà, ciò significherebbe che, seguendo lo schema del filosofo, vi sarebbe un potere specifico dell’individuo nelle mani dello Stato. Se ciò si verificasse, l’individuo si vedrebbe spogliato di uno dei suoi attributi essenziali e gli sarebbe impedito il raggiungimento della propria libertà, ciò che costituisce proprio una tra le finalità dello Stato. Pertanto, se lo Stato viola la libertà d’espressione dell’individuo, perde la propria ragion d’essere.
La libertà di pensiero ed espressione genera inoltre buona salute e permanenza dello Stato. Essa, infatti, ha a che vedere con le dimensioni più ribelli ed inconquistabili dell’essere umano. Se lo Stato tenta di limitare questi ambiti, ottiene solo sfiducia, corruzione e ribellione, elementi che contribuiscono a scomporre le strutture basilari dello stato stesso.[5]
Il Paese in cui si sviluppò in modo più rapido una forma di libertà di stampa fu la Gran Bretagna e a ciò concorsero diversi fattori. In primo luogo l’Inghilterra, a cavallo del Seicento, era un paese scosso da molti conflitti interni, impegnato in sfide estere con Francia e Spagna ma anche in prorompente crescita economica, politica e sociale. La popolazione aumentava, la nobiltà inglese (specie la piccola nobiltà) adottava un’etica in cui i valori aristocratici si andavano intrecciando a quelli dell’intraprendenza e del profitto; una borghesia vivace e ardita finanziava l’espansione coloniale nelle Americhe, si arricchiva con i traffici internazionali e con la crescita del mercato interno. Dopo varie vicissitudini il quadro religioso si assestò sulla prevalenza di un culto ufficiale anglicano, una sorta di via di mezzo tra Riforma e cattolicesimo, con cui convivevano però potenti correnti di protestantesimo radicale e combattive minoranze cattoliche. Un quadro, dunque, conflittuale, pluralistico ed estremamente vitale.[6]
Dal punto di vista del diritto, l’Inghilterra era caratterizzata da uno spiccato pragmatismo, costruito principalmente sulla base di risposte agli attacchi concreti subiti dai privilegi e dalle libertà private degli inglesi. Infatti, fin dagli albori dell’età medievale la tradizione giuridica dell’isola britannica assunse caratteri peculiari e distinti rispetto a quella del continente europeo, fondata sui canoni del diritto romano. Già a partire dall’egemonia altomedievale degli angli e dei sassoni si instaurano su quel territorio regole di convivenza che ne delineano una specificità: si tratta della C.d. lex angliae, forse più un insieme di customs che un corpus organico di norme giuridiche, ma che conferirono a quei popoli un’identità peculiare che avrebbe costituito la base del sistema giuridico di common law. D’altronde, subito dopo la conquista da parte dei Normanni nel 1066, le dinamiche sociali innescarono un processo grazie al quale gli antichi principi di libertà già contenuti nella lex angliae si sedimentarono proprio nella common law. Per capire il valore costituzionale di questi processi si tenga presente che l’Inghilterra deve la sua statalità alla diffusione capillare della funzione giudiziaria in grado di portare la «common law» sull’intero territorio della Nazione. Un processo che trova il suo compimento, tra il XII e il XIII secolo, grazie all’opera di sovrani come Enrico II ed Edoardo I. In particolare, il primo promuove la pratica delle corti di giustizia itineranti che, attraversando i territori del regno per decidere delle controversie attraverso l’applicazione imparziale delle regole e dei precedenti che via via andavano formandosi uniformemente all’interno della Nazione, finiscono per dare un volto preciso agli istituti giuridici e alle procedure giudiziarie. Un volto in cui si rispecchierà tutta la Nazione e che farà da collante collettivo, plasmando lo spirito di un popolo e il suo rapporto con la libertà. L’identificazione tra a nazione Inglese e la storia del suo ordinamento giuridico non è affatto un dettaglio accidentale in grado di suscitare solo l’interesse degli studiosi di storia del diritto, ma un elemento essenziale per capire le differenze di fondo sulle due sponde della Manica nel modo di concepire le funzioni dello Stato e il suo rapporto con l’individuo. Nella cultura giuridica inglese e alla base del sistema di «common law» riveste un ruolo centrale il concetto di «rule of law», ossia la primazia dei principi che presiedono alle libertà e ai diritti degli individui e delle comunità, limiti invalicabili per il potere politico perché antecedenti a esso.[7]
Nei vari testi inglesi, infatti, si può notare come tutti rispondano alla necessità di salvaguardare i cittadini di fronte agli abusi del potere. Facendo riferimento in particolare a tre di essi, che si distinguono per il loro carattere fondamentale, la Magna Charta del 1215, la Petition of Rights del 1628 e il Bill of Rights del 1689, si nota immediatamente una caratteristica che, a grandi linee, rimane invariabile nella loro evoluzione: essi rispondono a circostanze molto concrete, tentano di soddisfare pretese di gruppi determinati, configurando in tal modo le basi del sistema costituzionale inglese.[8]
Primo fra tutti il testo della Magna Carta nato a seguito della rivolta contro Giovanni d’Inghilterra. Nel 1215 il re d’Inghilterra Giovanni si trova a dover fronteggiare una rivolta di baroni e vescovi che lo accusano di non rispettare le prerogative della nobiltà e l’autonomia di borghi e contee. Il contrasto verte essenzialmente sulla legittimazione a prendere determinate decisioni, sulle modalità con cui potevano essere prese e sui limiti entro cui potevano dispiegare la loro efficacia. Il re, temendo un’alleanza tra i suoi oppositori e gli odiati nemici francesi, è costretto a scendere a patti e a sottoscrivere un accordo scritto, che solo successivamente assumerà il nome di Magna Carta Libertatum. Ciò che più conta sottolineare è lo spirito di fondo che animava la Carta: la negoziazione di un atto costituzionale con il re, la fissazione di limiti al suo potere e l’assunzione di responsabilità verso il regno da parte di tutte le componenti sociali che avevano dato vita al documento.[9] Una concezione del ruolo del sovrano che sarà alla base delle tormentate vicende che caratterizzeranno tutto il XVII secolo e che sfoceranno nella Seconda Rivoluzione inglese.
Dunque, per comprendere la nascita della libertà di espressione e di conseguenza il testo del Bill of Rights è necessario comprendere il contesto storico in cui venne scritto. Naturalmente il percorso fu tutt’altro che lineare. Nel 1557 Maria Tudor istituì la Stationery Office, ovvero la stamperia ufficiale del regno, e nel 1568 Elisabetta, che le succedette, sottopose la stampa all’autorità della Star Chamber, il tribunale riservato alle alte cariche dello Stato, che rimase per decenni il principale organo di censura delle pubblicazioni a stampa; inoltre, essa confermò la norma che sottoponeva gli stampatori ad obbligo di licenza regia, il Licence Act. Negli anni successivi, la questione della libertà di stampa conobbe alterne vicende, che si intrecciarono a quelle della rivoluzione. Nel 1632 Carlo I Stuart proibì i fogli di notizie, ma proprio questo gesto contribuì a rendere la libertà di stampa uno dei temi della lotta con il Parlamento, e nel 1641 il re dovette cedere alle forze parlamentari, abolendo la Star Chamber e il sistema delle licenze. Si aprì una breve stagione di assoluta libertà durante la quale apparvero a Londra più di 200 nuovi periodici.
Nel 1643 un provvedimento del Parlamento ripristinò l’alleanza tra il potere religioso, la Stationers’ Company e il potere politico, rappresentato ora dallo stesso Parlamento.
Nel novembre 1644, John Milton rispose alla censura, allarmato dalla situazione di assoluto arbitrio creatasi con il venir meno dei controlli preventivi, con l’Areopagitica, orazione per la libertà di stampare senza licenza, rivolta al Parlamento.[10] Era stata la Chiesa della Controriforma, secondo Milton, ad aver inasprito la censura preventiva ma poiché egli credeva che gli uomini fossero in grado di distinguere autonomamente il bene dal male, giudicava inutile, oltre che dannoso, vietare la pubblicazione di un testo. Non vi era nulla che non potesse essere letto, affermava il poeta, perché «la conoscenza non può corrompere, né di conseguenza i libri, se la volontà e la coscienza non siano corrotte».[11] Ai membri del Parlamento, dunque, Milton voleva «mostrare che nessuna Nazione o Stato ben costituito, se mai diedero valore ai libri, mai usarono questa via della censura». Egli, deprecando Platone per aver immaginato una «Repubblica» in cui «nessun poeta possa far tanto di leggere i propri scritti a un privato cittadino finché i giudici e i guardiani delle leggi non li abbiano visti e approvati», rimarcava quanto fosse assurdo e pericoloso pensare «di regolare la stampa per correggere i costumi», poiché sarebbe stato necessario in quel caso regolare pure «tutti gli svaghi e i passatempi, tutto ciò che è estremamente gradito all’uomo». Altro motivo, più pratico, per cui la censura reintrodotta dal Parlamento non avrebbe raggiunto i fini desiderati era, secondo Milton, «l’impossibilità di trovare il censore perfetto». Non vi erano dubbi, egli sosteneva, che chi viene fatto giudice della nascita e della morte dei libri debba essere un uomo al di sopra della misura comune, al tempo stesso studioso, dotto e giudizioso, altrimenti ci potrebbero essere non piccoli errori nella censura di ciò che sia scibile o meno, ciò che pure è un danno non lieve.
Sebbene Milton invocasse a gran voce l’abolizione dei controlli preventivi e ritenesse che la «Verità» e la «menzogna» andassero lasciate libere di scontrarsi («chi ha mai visto la Verità avere la peggio in uno scontro libero e aperto? La migliore e più ferma soppressione del falso ne è la confutazione»), egli non era comunque per una libertà di stampa senza limiti. In apparente contraddizione con le proprie argomentazioni non concedeva, infatti, alcuno spazio al «papismo» e a tutto «ciò ch’è empio o male in assoluto per la fede e i costumi». Inoltre, accettava che la produzione della stampa fosse regolamentata dalla legge. Riteneva che nessun libro dovesse essere stampato se i nomi dello stampatore e dell’autore non fossero stati registrati, e che i libri pubblicati in altro modo, qualora fossero risultati «nocivi e diffamatori», avrebbero dovuto essere distrutti: «il fuoco e il boia», affermava, «saranno il rimedio più tempestivo ed efficace che la prevenzione umana possa usare».
Quella del poeta inglese non era una voce isolata. Altre se ne levarono durante la guerra civile, tra i puritani più radicali (John Lilburne, Richard Overton, William Walwyn), per propugnare la libertà di stampa, concepita come corollario della libertà di coscienza. Il Parlamento tuttavia non vi prestò ascolto e non abolì la censura, mantenuta anche nella Repubblica di Oliver Cromwell, instaurata nel maggio del 1649 dopo la decapitazione di Carlo I giustiziato per tradimento dai ribelli vittoriosi.
Nel mese di settembre, fu varato un primo Printing Act che stabilì una ferrea disciplina della stampa: l’attività tipografica, posta sotto la stretta tutela della Company of Stationers, non poteva essere svolta al di fuori delle città di Londra, Cambridge, Oxford, York e Finsbury. Tutti i libri e gli opuscoli dovevano passare il vaglio dei censori prima della pubblicazione: i nomi dell’autore e di chi aveva concesso la licenza di stampa dovevano comparire sui testi pubblicati. Tutti i giornali periodici (i newsbooks) autorizzati negli anni precedenti furono soppressi e gli stampatori infine obbligati a versare una cauzione di trecento sterline.
Un secondo Printing Act, non dissimile dal precedente, fu approvato poi all’inizio del 1653; ma Cromwell, assunto alla fine di quell’anno il titolo di Lord protettore d’Inghilterra, Scozia e Irlanda, e trasformato il regime repubblicano in una dittatura personale, nel 1655 estese ulteriormente i controlli. Morto Cromwell nel 1658, e restaurata la monarchia nel 1660 con l’ascesa al trono di Carlo II Stuart (1660/1685), nel 1662 fu adottato dal Parlamento un nuovo Printing Act che vietò la pubblicazione di libri e pamphlets eretici, sediziosi e offensivi verso la Chiesa anglicana, confermando i privilegi di stampa alla Company of Stationers, la quale, in cambio, era chiamata a collaborare all’applicazione della regolamentazione censoria.
Il licensing system di Carlo II rimase in vigore dal 1662 al 1695. Fu rinnovato più volte dal Parlamento, anche dopo la Gloriosa rivoluzione del 1688-1689 con la quale fu instaurata in Inghilterra, senza spargimento di sangue, una monarchia costituzionale. Nel 1695, tuttavia, il Parlamento decise di non rinnovare il Printing Act, lasciandolo decadere sulla base di considerazioni critiche echeggianti quelle formulate dal filosofo John Locke, che fu consultato sulla questione.
Nella visione di Locke gli uomini erano dotati di diritti inalienabili, tra i quali supremi erano le libertà di coscienza, di culto e di parola. Egli, dunque, non capiva perché mai un uomo non potesse stampare liberamente tutto ciò che diceva a voce, e rispondere, in un caso come nell’altro, per ogni violazione di legge. Locke contestava il monopolio sulla stampa e sul commercio dei libri esercitato dalla Company of Stationers, non in grado nemmeno a suo parere di garantire la buona qualità delle pubblicazioni. Al pari di Milton, tuttavia, non riconosceva uguali diritti a tutti: non accordava alcuna tolleranza ai cattolici d’Inghilterra, poiché sudditi di un sovrano straniero (il papa), né agli atei, i quali negando l’esistenza di Dio favorivano il dissolvimento della società: «Non devono essere assolutamente tollerati quelli che negano che ci sia una divinità», affermava Locke. «Infatti né una promessa, né un patto, né un giuramento, tutte cose che costituiscono i legami della società, se provengono da un ateo, possono costituire qualcosa di stabile o di sacro; eliminato Dio, anche solo con il pensiero, tutte queste cose si dissolvono».
Dal 1695 la stampa, in Inghilterra, non era più sottoposta a censura preventiva. Il mancato rinnovo del licensing system da parte del Parlamento e l’approvazione del Bill of Right avevano sancito la nascita di un nuovo mondo.[12]
Il documento del Bill of Right è ratificato definitivamente il 16 dicembre 1689. Il documento è un testo giuridico di fondamentale importanza per la storia costituzionale britannica perché, da una parte, riafferma le antiche libertà della tradizione medievale, compreso l’habeas corpus, cioè il diritto dell’individuo accusato di un crimine a essere giudicato da un giudice imparziale e non da un fiduciario del re e, dall’altra, sancisce con forza importanti prerogative a favore del Parlamento.
Da un punto di vista organizzativo, nel testo possono essere distinte facilmente varie parti. In primo luogo, si espone una lista di 12 punti, nei quali si narrano le ingiustizie e gli attacchi alle libertà degli inglesi da parte di Giacomo II. Nel documento non si effettua alcuna enunciazione di grandi idee o principi generali. Tutto ciò che si scrive è secondo la lettera del documento, «assolutamente e direttamente contrario alle leggi e agli statuti riconosciuti, e contro le libertà di questo Regno», inoltre, si enumera una lista di «antichi diritti e libertà» rivendicati dal Parlamento. Si sanciscono, in 13 articoli: la supremazia legislativa del Parlamento rispetto al re, la necessità di accordo del Parlamento per imporre tributi, il diritto di petizione, l’illegalità di un esercito permanente in tempo di pace, il diritto alla libera detenzione di armi, la libertà di elezione dei membri del Parlamento, la libertà di parola nei dibattiti e Procedimenti parlamentari, il divieto di garanzie e ammende sproporzionate, un’appropriata composizione delle giurie, l’illegalità delle ammende ed espropriazioni previe a una condanna giudiziale, la necessità di sessioni frequenti del Parlamento come mezzo per salvaguardare le libertà. I 13 articoli costituiscono un vero e proprio programma per la legislazione futura e obbediscono a una situazione concreta di tensione, ovvero al contesto storico precedentemente analizzato.[13] Infatti, all’art. 9 si dichiara «che la Libertà di parola e i dibattiti e procedimenti nel Parlamento non devono essere impediti o indagati in alcun tribunale o luogo fuori del Parlamento». Si può osservare che tale dichiarazione non ha carattere generale: non ha come riferimento, cioè, la possibilità di libera espressione di tutti i cittadini, indipendentemente da altre circostanze. Il suo contenuto è determinato, invece, dalle concrete lotte e dalle detenzioni di cui alcuni parlamentari erano stati vittime a causa delle loro opinioni e dei loro discorsi nelle Camere. Da qui il puntuale riferimento alla libertà di parola e discussione «nel Parlamento». Questa dichiarazione non presenta, dunque, un carattere generale poiché era volta a risolvere un problema contingente: è un’evidente manifestazione del carattere pragmatico del modello inglese. Nonostante ciò, questo non esclude, ovviamente, che gli autori del testo non fossero a favore di un contenuto universale della libertà d’espressione.
Successivamente, nel 1712, la regina Anna, in un messaggio ai Comuni, invocò una nuova stretta sulla stampa. Il Parlamento rispose approvando una tassa sui giornali, la Stamp Act, diretta a colpire i fogli più piccoli: una misura non repressiva come la censura che nell’immediato portò comunque alla chiusura di diverse testate. Con lo Stamp Act la circolazione dei giornali calò ma non in modo drastico.[14]
Con i processi rivoluzionari del Settecento si assistette all’effettiva instaurazione di un nuovo ordine politico, che si sviluppò a partire dalla rimozione delle strutture proprie dell’Antico Regime. I centri di riferimento di tale rinnovamento si situarono, rispettivamente, nelle colonie inglesi dell’America del Nord e in Francia. Il cambiamento si innescò e progredì dalle circostanze ideologiche dell’Illuminismo e si può constatare il riflesso delle stesse nei successivi testi costituzionali americani e francesi.
Nel corso del Settecento, alcuni tra i maggiori filosofi e pensatori francesi, critici della società di Antico Regime, avevano propugnato la libertà di parola e di stampa. Ammiratore dell’Inghilterra, Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu, nella sua opera più importante, Lo spirito delle leggi, pubblicata in forma anonima a Ginevra nel 1748, affermava esplicitamente che «per godere della libertà, bisogna che ciascuno possa dire ciò che pensa e che, per conservarla, bisogna ancora che ciascuno possa dire ciò che pensa».
Nell’Esprit des Lois vi è quindi una chiara argomentazione a favore della libertà di stampa e del diritto di comunicare pensieri e conoscenze tra uomini liberi. La libertà, per Montesquieu, è un valore irriducibile. L’assunto di base è che la libertà di comunicazione – verbale e scritta – è uno spazio inviolabile in cui i governi non devono interferire. Montesquieu metteva radicalmente in dubbio l’idea che un discorso potesse avere un impatto pericoloso. Per il filosofo, le parole non sono pericolose (quindi non sono punibili) ed è il contesto nel quale si formulano i discorsi a generare significati diversi. Pertanto gli agitatori che animano le folle con i loro discorsi devono essere puniti a causa dei disordini che creano, non a causa dei loro discorsi. Le parole possono designare azioni criminali ma non sono azioni in sé, sono le azioni a esplicitare il significato delle parole. Per questo motivo la censura prima della pubblicazione di uno scritto non ha ragioni solide. D’altra parte, i governi possono trarre vantaggio dalla libera comunicazione dei pensieri: i governi sono liberi se incoraggiano le capacità di ragionamento della popolazione, senza badare alla fondatezza delle opinioni dei singoli.
Nel 1763 Denis Diderot — promotore, curatore e compilatore, con d’Alembert, dell’Enciclopedia, opera simbolo dell’Illuminismo francese — invocò a sua volta l’abolizione della censura sostenendo che gli effetti pratici di questa erano in realtà contrari a quelli desiderati, poiché proprio il divieto rendeva più appetibile un libro pericoloso. Nel 1771 Voltaire, per il quale non poteva esservi «libertà presso gli uomini senza la libertà di spiegare il proprio pensiero», elogiò il sovrano danese Cristiano VII (1766-1808) che aveva appena abolito nel suo regno la censura preventiva proclamando la libertà di stampa in forma illimitata. In una Lettera al re di Danimarca il filosofo scrisse: «Mi getto ai tuoi piedi, in nome del genere umano. Esso parla attraverso la mia voce, benedice la tua clemenza. Tu restituisci all’uomo i suoi diritti e permetti che si pensi. Sermoni, romanzi, fisica, inno, storia, opera, tutti possono scrivere tutto: e fischiare chi vogliono!». Nel 1776 anche Marie-Jean-Antoine Caritat, marchese di Condorcet, si espresse contro la censura in un pamphlet intitolato Fragments sur la liberté de le presse, destinato ad avere una grande influenza sui rivoluzionari francesi, nel quale sosteneva comunque la necessità di reprimere con fermezza gli abusi per via legislativa. A suo giudizio, chi calunniava una persona comune o una persona pubblica, incolpandola intenzionalmente di un crimine che non aveva commesso, doveva essere in entrambi i casi condannato a una pena pari a quella prevista per il crimine attribuito alla vittima della calunnia. La diffamazione compiuta in buonafede era invece un reato meno grave perché essa, per Condorcet, consisteva in una falsa accusa, ritenuta vera dall’accusatore, rivolta contro un individuo. In tal caso, quindi, se ad essere accusato era un privato cittadino questi aveva il diritto di ottenere un risarcimento per il danno subito; mentre se si trattava di un uomo pubblico la cosa non solo era tollerabile ma addirittura encomiabile, poiché secondo Condorcet la denuncia in buonafede di un presunto crimine, o di un comportamento giudicato immorale, costituiva in ogni circostanza una forma legittima di controllo nei confronti dei governanti. Egli così spiegava: «Il diritto dei cittadini a giudicare i comportamenti degli uomini al potere, non in segreto, non in conversazioni, ma in opere stampate e pubblicate, è una delle più sicure salvaguardie per difendere i popoli dall’oppressione, per tutelare i re dal tradimento, e dalle disgrazie a cui possono portarli gli errori e le debolezze dei loro ministri».
Un altro intellettuale e filosofo che avrebbe avuto una larga fortuna negli anni della rivoluzione fu Jean-Jacques Rousseau, il teorico della democrazia moderna, il quale pure nel Contratto sociale — opera pubblicata ad Amsterdam nel 1762, ma presto bandita dalle autorità parigine — attribuiva all’opinione pubblica la facoltà di giudicare i comportamenti individuali: «Come la dichiarazione della volontà generale si fa per mezzo della legge, così la dichiarazione del giudizio pubblico si fa per mezzo della censura; l’opinione pubblica è quella sorta di Legge della quale il censore è il ministro ed egli non fa che applicarla ai casi particolari a somiglianza del principe». «Presso tutti i popoli del mondo», osservava ancora il filosofo ginevrino, «non è la natura ma l’opinione a decidere della scelta dei loro piaceri. Raddrizzate le opinioni degli uomini, e i loro costumi si purificheranno da soli».[15]
Le principali linee di pensiero dell’Illuminismo incisero sulla mentalità dei rivoluzionari americani, si trattò di un’influenza che si consolidò nel tempo e che deve essere intesa nell’ambito del passaggio dal tradizionalismo pragmatico britannico al razionalismo astratto francese, appena esaminato.
Per analizzare le prime positivizzazioni della libertà d’espressione, elaborate nelle colonie inglesi dell’America del Nord, fino all’approvazione del Primo Emendamento alla Costituzione, è opportuno tenere in considerazione il contesto storico in cui esse si inseriscono. Il processo di indipendenza nordamericano costituisce, in linea generale, una reazione contro l’Inghilterra, includendo, evidentemente, un rifiuto della dottrina britannica sulla libertà d’espressione.
La Camera Stellata inglese aveva avuto tradizionalmente la competenza di intervenire in quei casi in cui era in gioco la libertà di stampa. Con la sua scomparsa, nel 1641, tale competenza fu assunta dai tribunali ordinari di Common Law. Proprio tali tribunali elaborarono una dottrina che distingueva quattro tipi di pubblicazioni (libelli): blasfemi, privati, criminali e sediziosi. Con la loro persecuzione si tentava di reprimere le intenzioni maliziose o criminali, le osservazioni offensive o pericolose, degli autori nei confronti dei governanti. I margini di azione dell’autorità nella persecuzione di questi libelli erano molto ampi, data l’indeterminatezza dei confini della fattispecie stessa. La finalità del mantenimento di questa figura di reato consisteva nel rendere disponibile al Potere uno strumento utile per evitare ogni tipo di critiche e attacchi, con un grado di discrezionalità molto elevato.
Dopo la Rivoluzione inglese, nonostante l’eliminazione della censura preventiva, si stabilì una forte censura a posteriori, destrutturando di fatto un sistema di libertà di stampa. La persecuzione degli scritti che criticavano i governanti, in base all’intenzione o ad una possibile provocazione da parte dell’autore (presunta, non necessariamente effettiva) con il pretesto di difendere la pace sociale e il rispetto dovuto ai governanti, indipendentemente dalla loro verità o falsità, cominciò a costituire un meccanismo incompatibile con il concetto di libertà per i coloni.[16]
Nel 1765 l’imposizione di un bollo su ogni foglio stampato provocò le furiose proteste dei cittadini americani che si ritenevano sempre più penalizzati dal Parlamento inglese. Già innescato negli anni precedenti da varie cause economiche e sociali, prese dunque quota il movimento che in pochi anni avrebbe portato all’indipendenza; e la libertà di stampa, che di fatto risultava limitata dalla legge sul bollo, divenne uno dei temi centrali del dibattito politico. Durante la rivoluzione nelle colonie si diffuse una grande libertà di espressione: i giornali discussero ampiamente di progetti di riorganizzazione dell’Impero, tassazione, leggi e riforme istituzionali. Attraverso i giornali (e i dibattiti pubblici ad essi collegati) si definirono alcuni temi peculiari dell’ideologia statunitense: l’idea di una essenziale «diversità» dell’America rispetto all’Europa, la centralità della liberty come valore sociale e individuale, l’ideale di una repubblica virtuosa di uguali.[17]
La Dichiarazione d’Indipendenza (4 luglio 1776) costituisce la formalizzazione della rottura tra le colonie e la madrepatria. Il testo della Dichiarazione costituisce il culmine di una serie di decisioni adottate dal Congresso di Albany (1754), dallo Stamp Act Congress (1765) e dal Primo Congresso Continentale (Filadelfia, 1774). Nell’ambito di questo processo è bene citare l’esortazione che il Primo Congresso Continentale rivolse agli abitanti della città di Quebec (26 ottobre 1774) affinché aderissero alla causa delle colonie. In tale documento, nell’enumerazione dei diritti più importanti per i rappresentanti delle colonie, vi è un riferimento esplicito alla libertà d’espressione:
«L’ultimo diritto che menzioneremo riguarda la libertà di stampa. La sua importanza, insieme all’avanzamento della verità, della scienza, della moralità e delle arti in generale, risiede nella diffusione di abbondanti opinioni sull’amministrazione del governo, nella facile comunicazione di pensieri tra individui, e nella conseguente promozione dell’unione tra essi, attraverso cui i governanti tirannici sono intimiditi e disonorati, per ottenere una più onorevole e giusta amministrazione degli affari”. Tre sono le idee principali che si trovano dietro tale concezione della libertà di stampa, come specificazione della libertà d’espressione: la libertà di stampa, infatti, è indicata come mezzo per l’avanzamento del sapere, come strumento di coesione sociale e come meccanismo di resistenza di fronte al potere.
Nella Dichiarazione d’Indipendenza si trovano i grandi principi del giusnaturalismo razionalista: il diritto degli individui alla vita, alla libertà e alla conquista della felicità, l’origine del potere di governo e il consenso popolare, il diritto del popolo a ribellarsi contro i governanti che non garantiscono i diritti inalienabili. Tali diritti possono considerarsi impliciti nella descrizione delle ingiustizie della Corona inglese.
La Dichiarazione gettò dunque le basi affinché le colonie cominciassero a emanare documenti dichiarativi dei propri diritti fondamentali. In quest’ambito, il testo principale è quello della Dichiarazione dei diritti del Buon Popolo della Virginia (12 giugno del 1776), che è quella che meglio rappresenta lo spirito di questi testi e serve da esempio per molti di essi. All’articolo XII di tale Dichiarazione si legge: «Che la libertà di stampa è uno dei grandi baluardi della libertà e non può mai essere limitata, se non da governi dispotici». L’idea della primazia della libertà d’espressione su altre libertà è tipica, come si è visto, del pensiero rivoluzionario americano. È comune a questa impostazione anche l’idea che l’esistenza o meno di tale libertà sia un chiaro test per valutare il carattere democratico o dispotico di un governo.
In Pennsylvania, la Costituzione del 16 agosto del 1776 include una Dichiarazione dei diritti al cui articolo XII sancisce che: «il popolo ha diritto alla libertà d’espressione, oltre che di scrivere e pubblicare i propri sentimenti; pertanto, la libertà di stampa non dovrà essere limitata».
Nella Dichiarazione dei diritti e delle norme fondamentali di Delaware (11 settembre 1776), alla sezione 23, si può leggere un breve riferimento alla libertà di stampa: «Che la libertà di stampa dev’essere inviolabilmente preservata». Identico enunciato ha l’articolo XXXVIII della Costituzione del Maryland. In quest’ultimo documento si trova un doppio riferimento alla libertà d’espressione; infatti l’articolo VIII recita: «La libertà d’espressione e di dibattito, o gli atti nelle camere, non devono essere denunciati e giudicati in nessun altro tribunale». In questo caso, la libertà d’espressione si assicura attraverso l’immunità parlamentare, come prerogativa dei membri delle camere.
La Costituzione del North Carolina (14 dicembre 1776), all’articolo XV, accoglie un enunciato molto simile a quello della Dichiarazione dei diritti del Buon Popolo della Virginia: «La libertà di stampa è uno dei grandi baluardi della libertà e pertanto non deve mai essere limitata». Dal canto suo, la Costituzione del Vermont (8 giugno 1777) include al capitolo I una «Dichiarazione dei diritti degli abitanti dello Stato del Vermont», al cui articolo XIV compare lo stesso enunciato già visto all’articolo XII della Costituzione del Pennsylvania del 1776.
Il Massachussets fu l’unica colonia in cui il testo costituzionale fu sottoposto al popolo per la sua pubblica approvazione. La Costituzione del 24 ottobre del 1780, al suo articolo XVI, dichiara: «La libertà di stampa è essenziale per la sicurezza della libertà di uno Stato, pertanto non deve essere limitata in questo commonwealth». Da ultimo, occorre fare riferimento anche alle disposizioni relative alla libertà d’espressione della Costituzione del New Hampshire (2 giugno 1784). Qui, come nel caso del Vermont, la prima Parte del documento include un Bill of Rights, al cui articolo XXII si legge: «La libertà di stampa è essenziale per la sicurezza della libertà di uno Stato. Pertanto, dev’essere inviolabilmente protetta». L’articolo XXX dichiara che «la libertà di discussione, espressione e dibattito in entrambe le Camere del Parlamento è talmente essenziale per i diritti del popolo da non poter costituire il fondamento di alcuna azione, reclamo o persecuzione in qualsiasi altro tribunale o luogo».
Nelle costituzioni americane, tutti i diritti di libertà trovano la stessa enunciazione, la stessa impostazione giuridica, in quanto, come ritiene Boggiani (2012) «il costituzionalismo americano è puro, muove cioè, dall’idea della sovranità ascendente, cioè del potere dal basso. Sovrano è il popolo, quindi le costituzioni devono garantire le libertà fondamentali da ingerenze del potere costituito».[18]
Il popolo è sovrano, perciò il Primo Emendamento della Costituzione del 1791, stabilisce che: «Il Congresso non farà alcuna legge per la istituzione di una religione o per proibirne il libero esercizio, o per restringere la libertà di parola o di stampa o il diritto del popolo di riunirsi pacificamente e di rivolgere petizioni al Governo per la riparazione di ingiustizie».
A partire dal Primo Emendamento, la Corte Suprema Nordamericana ha costruito un’ abbondante dottrina sul significato e sullo status della libertà d’espressione, utilizzando diversi criteri di interpretazione.[19]
In Francia, il controllo della stampa veniva praticato utilizzando meccanismi come la censura preventiva, la restrizione delle pubblicazioni attraverso la concessione di privilegi (permessi per stampare) e il controllo di vendita e circolazione. Tuttavia, la filosofia e le idee del razionalismo illuminista avevano preparato per molto tempo l’ambiente rivoluzionario e si erano diffuse a poco a poco nella massa sociale. Da lì, il contrasto tra la società e le istituzioni di governo fu semplice. Nella dinamica rivoluzionaria, il primo elemento attraverso cui si possono constatare queste divergenze è costituito dai cahiers de doléances, i quali, redatti dai diversi stati, contengono le istruzioni che dovevano guidare le azioni dei loro rappresentanti negli Stati Generali. Le lamentele che vi compaiono sono espressione diretta degli abusi commessi dal Potere, ma in un secondo piano è possibile osservare il riflesso del movimento filosofico del XVIII secolo. I quaderni costituiscono un effettivo esercizio di libertà d’espressione da parte della società francese e in questi documenti, la libertà di stampa costituisce proprio una delle rivendicazioni più diffuse. Particolarmente interessanti risultano quei quaderni in cui si include un progetto di dichiarazione dei diritti dell’uomo. Ad esempio, nelle Remontrances, moyens et avis que le tiers état du bailliage de Nemours charge a ses députés de porter aux États Généraux (febbraio 1789) si può leggere: «Non può esservi altro reato nelle parole o negli scritti che l’ingiuria o la calunnia. Ogni uomo che sia vittima dell’una o dell’altra ha diritto ad invocare contro esse i rimedi previsti dalla legge, come farebbe contro qualsiasi altra offesa commessa nei suoi confronti». Sancire che gli unici limiti alla libertà d’espressione (orale o scritta) sono l’ingiuria o la calunnia, quindi l’onore di altri soggetti, significa che in qualsiasi altro ambito l’espressione dev’essere libera, e non essere sottoposta ad altre restrizioni o limiti. Anche nei Cahiers de doléances de la Noblesse des bailliages de Mantes et de Meulan (marzo 1789), si trova un progetto di dichiarazione, nel quale si legge: «Che ogni individuo godrà della libertà di scrivere e di stampare senza che essa possa essere turbata dall’apertura delle lettere e senza che nessuno possa essere perseguitato e punito per ciò che ha detto, stampato o distribuito, a meno che derivi da tale discorso, da tale pubblicità, la violazione del diritto altrui, riconosciuta come tale dalla legge. In questo caso, si possono prevenire tutti gli inconvenienti della libertà segnalando chi stampa come responsabile, se egli non segnala l’autore». La responsabilità del tipografo, nel caso in cui non si trovi l’autore degli scritti delittuosi, costituisce una soluzione analoga a quella proposta da Locke nel suo contributo contro la rinnovazione del Licensing Act nel 1694. Tutti questi progetti mostrano lo stato della questione al momento della convocazione degli Stati Generali e costituiscono le basi della positivizzazione giuridica della libertà d’espressione.
L’articolo 11 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, approvata dall’Assemblea nazionale costituente il 26 agosto, affermava: «La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi per l’uomo; ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di tale libertà nei casi contemplati dalla Legge». Con la Rivoluzione, inoltre, l’ideale del potere dall’alto veniva rivoltato con le armi e «i Rappresentanti del Popolo Francese, costituiti in assemblea» stabilivano che «il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione. Nessun corpo, nessun individuo può esercitare un’autorità che da essa non emani espressamente» (Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino, art.3, 1789).
Si passa così, a un’idea di sovranità di stampo europeo: la Sovranità, cioè il Potere, è nella Nazione, non nell’individuo; nei cittadini, non nel cittadino.[20] I rivoluzionari francesi erano ostili alla censura preventiva, ma nello stesso tempo erano contrari a una libertà di stampa illimitata. Erano assillati infatti dal problema degli scritti oltraggiosi, nonché dalla preoccupante moltiplicazione di casi di calunnia registrati nelle prime settimane dell’insurrezione, in quanto gli stessi deputati della Costituente erano vittime di minacce e attacchi personali. Così, quando redassero l’articolo 11 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, furono in maggioranza concordi nello stabilire che una legge avrebbe dovuto sanzionare ogni eccesso.
Le divergenze di opinione tra i costituenti emersero quando si trattò di stabilire quali confini dovessero essere fissati alla libertà di espressione. Il 20 gennaio 1790 l’abate Sieyès, protagonista dei lavori dell’Assemblea nazionale, presentò un progetto di legge contro i delitti di stampa. L’abate disse, introducendolo, che «il pubblico sbaglia quando chiede una legge per accordare o autorizzare la libertà di stampa», perché «non è in virtù di una legge che i cittadini pensano, parlano, scrivono o pubblicano i loro pensieri», bensì «in virtù dei loro diritti naturali». «La legge è Solamente un’istituzione protettrice», spiegava, «formata da questa stessa libertà anteriore a tutto, e per la quale tutto esiste nell’ordine sociale». Allo stesso tempo, tuttavia, proseguiva l’abate, se si vuole che la legge protegga effettivamente la libertà del cittadino, bisogna che sappia come reprimere gli attacchi che possono esserle fatti. Essa deve dunque segnare nelle azioni naturalmente libere di ciascun individuo il punto al di là del quale queste diventerebbero lesive dei diritti altrui; lì, deve mettere dei segnali, stabilire dei limiti, vietare di passarli, e punire chi disubbidisce. «La libertà di stampa, come tutte le libertà, deve dunque avere i suoi limiti legali», concludeva Sieyès. Il quale, attenendosi a quel principio, aveva elaborato insieme a Condorcet il progetto di legge, composto da 44 articoli, ma giudicato troppo severo e perciò neanche messo ai voti. Particolarmente criticati furono gli articoli 2 e 3, nei quali era definito come sedizioso non solo lo scritto stampato che incitava i cittadini a opporsi con la forza all’esecuzione delle leggi o a compiere violenze, ma anche quello pubblicato negli otto giorni antecedenti l’inizio di una ribellione violenta e contenente false accuse, se era dimostrabile che tali accuse avevano animato i rivoltosi, a prescindere se lo scritto avesse incitato o meno in modo esplicito alla sommossa. L’articolo 4 del progetto, poi, si richiamava alla giurisprudenza dell’Antico Regime per punire gli autori di opere ingiuriose verso la persona del Re, dichiarata inviolabile e sacra dalla legge costituzionale dello Stato (ai colpevoli di lesa maestà poteva essere inflitta così anche la pena di morte); mentre per il responsabile di un attacco ai buoni costumi, l’articolo 5 prevedeva la perdita dei diritti civili per un periodo massimo di quattro anni e un’ammenda pari alla metà del suo stipendio annuale.
Bocciata la legge Sieyès-Condorcet, il dibattito sui limiti si riaccese in estate allorché, il 31 luglio 1790, su proposta del deputato monarchico Pierre-Victor Malouet, l’Assemblea nazionale approvò un decreto restrittivo che configurava il delitto di «lesa nazione» per tutti coloro i quali — autori, stampatori, rivenditori — avessero con opere scritte «incitato il popolo all’insurrezione contro le leggi, allo spargimento di sangue e al rovesciamento della Costituzione». Proprio allora, però, andava emergendo sui giornali e tra i deputati un orientamento favorevole invece a una libertà di stampa pressoché assoluta. Una posizione quasi libertaria che era stata già espressa in un pamphlet apparso a commento del fallito progetto di legge, e passato quasi inosservato, nel quale l’autore, Jean-René Loyseau, distinguendo tra parole e azioni aveva sostenuto la tesi ardita per cui nessuno scritto in realtà poteva considerarsi sedizioso.
Il decreto di luglio fu aspramente contestato «Il vergognoso decreto, lanciato contro gli scrittori patriottici», commentò Jean-Paul Marat, «è l’opera dei nemici della costituzione, che siedono nell’assemblea nazionale e la disonorano. Questo attentato contro la libertà di stampa basta da solo ad annientare la libertà di pensare e di scrivere, i più belli tra i diritti dell’uomo». Anche Marat, come Loyseau, sosteneva che i discorsi e gli scritti non avrebbero potuto essere sediziosi. Neanche i più indecenti, i più violenti e i più scandalosi avrebbero potuto esserlo, perché per commettere il delitto di lesa nazione, egli affermava, bisognava agire contro la nazione. Ovvero, adoperarsi «per toglierle la sua sovranità, rovinare i suoi interessi, attentare alla sua libertà, o mettere in pericolo la sua salute». E comunque, concludeva, «i criminali di lesa nazione non possono mai trovarsi tra gli scrittori patriottici, così spesso spauracchio di questi criminali».
Robespierre, il più convinto liberale, sosteneva che la libertà di stampa dovesse essere «il più terribile flagello del dispotismo» essere «intera e indefinita, o non esiste», come dichiarò l’11 maggio 1791 in un discorso alla Società degli Amici della Costituzione. Il capo giacobino, richiamandosi alla Dichiarazione dei diritti della Virginia del 1776, tollerava che soltanto le calunnie rivolte ai privati cittadini fossero sanzionate da leggi penali, mentre nessun limite avrebbe dovuto essere posto alla manifestazione — verbale o scritta — delle proprie opinioni su qualsiasi argomento. Robespierre distingueva tra «cose» e «persone»: i «due soggetti» sui quali poteva esercitarsi la libertà di scrivere. «Il primo di questi soggetti» racchiudeva «tutto ciò che tocca i più grandi interessi dell’uomo e della società, tali come la morale, la legislazione, la politica, la religione»; e «le leggi», affermava dunque Robespierre, «non possono mai punire alcun uomo per aver egli manifestato le sue opinioni su tutte queste cose». Era infatti «incontestabile», secondo lui, il principio per cui: «la legge non può infliggere alcuna pena là dove non può esistere un delitto suscettibile di essere caratterizzato con precisione e riconosciuto con certezza, altrimenti il destino dei cittadini sarebbe sottomesso ai giudizi arbitrari e la libertà non esisterebbe più. Le leggi possono colpire gli atti criminali, poiché questi consistono in fatti sensibili, che possono essere chiaramente definiti e constatati seguendo delle regole sicure e costanti. Mai le opinioni!». Il solo giudice competente per le opinioni private, proseguiva Robespierre, echeggiando Rousseau, era l’opinione pubblica: «il solo censore legittimo degli scritti. Se essa li approva, con quale diritto, voi, uomini al potere, potete condannarli? Se essa li condanna, quale necessità avete voi per perseguitarli?». «L’impero dell’opinione pubblica sulle opinioni particolari», concludeva, «è dolce, salutare, naturale, irresistibile; quello dell’autorità e della forza è necessariamente tirannico, odioso, assurdo, mostruoso».
Nel periodo della Costituente la libertà di stampa, in Francia, fu di fatto illimitata, nonostante il decreto Malouet e le nuove misure restrittive adottate dall’Assemblea nazionale. Il 18 luglio i deputati approvarono un decreto che puniva, in quanto sediziosi e perturbatori della pace pubblica, tutti coloro i quali avessero incitato esplicitamente a voce o per iscritto a disubbidire alla legge. Il 19 adottarono poi un provvedimento che stabiliva, per chiunque avesse minacciato o oltraggiato un funzionario pubblico, una pena fino a due anni di carcere e il pagamento di un’ammenda.
Il 3 settembre 1791 i deputati vararono la nuova Costituzione monarchica che riconosceva «la libertà ad ogni Uomo di parlare, di scrivere, di stampare e di pubblicare 1 propri pensieri, senza che gli scritti possano essere sottoposti a censura o ispezione prima della pubblicazione» (articolo 11), ma fissava altresì limiti stringenti. Nel capitolo sul potere giudiziario essa recitava:
«Nessuno può essere ricercato o perseguito a motivo degli scritti che avrà fatto stampare o pubblicare su qualsiasi materia, se non abbia premeditatamente provocato la disobbedienza alla legge, la menomazione dei poteri costituiti, la resistenza ai loro atti, o alcuna delle azioni dichiarate crimini o delitti dalla legge. – La censura sugli atti dei Poteri costituiti è permessa; le calunnie volontarie contro la probità dei funzionari pubblici e la dirittura delle loro intenzioni nell’esercizio delle loro funzioni potranno essere perseguite da coloro che ne sono oggetto. – Le calunnie e le ingiurie contro qualsiasi persona relative alle azioni della sua vita privata saranno punite su sua denuncia» (capitolo V, articolo XVII).[21]
Se il Costituzionalismo americano portava a limitare i poteri della legge, il Costituzionalismo francese portava all’onnipotenza della Legge. È in questo contesto storico, in cui, secondo Boggiani (2012) “la normativa rinnegante trova il suo humus naturale”. Se i Francesi muovono dall’idea di Nazione; dall’idea di un ordine pubblico affidato alla Legge, quando proclamano i diritti dell’individuo, chiedono aiuto alla normativa rinnegante per conciliare principi tra loro opposti: cominciano i purché, i ma, i distinguo, in nome della Legge. Se il primo emendamento alla Costituzione Federale degli Stati Uniti stabilisce senza alcuna eccezione, senza alcun ma i limiti del Potere legislativo in merito alle libertà fondamentali dell’individuo; la disposizione parallela della Costituzione francese del 1791 stabilisce: «Il Potere legislativo non potrà fare nessuna legge che menomi od ostacoli l’esercizio dei diritti naturali e civili riferiti nel presente documento e garantiti dalla Costituzione ma poiché la libertà di stampa non consiste che nel poter fare tutto ciò che non nuoce né ai diritti altrui, né alla pubblica sicurezza, la Legge può stabilire delle pene contro gli atti che, attaccando o la sicurezza pubblica o diritti degli altri, sarebbero nocivi alla società» (Cost., 3 settembre 1791, par. II, art. 3). Oggi, le istituzioni che si rispecchiano nei fatti e nelle ideologie del 1789, quindi anche quelle italiane, presentano questi caratteri.[22]”
A cura del Prof. Avv. Francesco Saverio Vetere e della Dott.ssa Ilaria Marchetti.
[1] O. Bergamini, La Democrazia della Stampa. Storia del Giornalismo, Urbino, Editori Laterza, 2013, pp. 6-10.
[2] O. Bergamini, La Democrazia della Stampa. Storia del Giornalismo, Urbino, Editori Laterza, 2013, pp. 6-10.
[3] E. Tortarolo, L’invenzione della libertà di stampa, Roma, Carrocci Editore, 2011, pp.
[4] E. Tortarolo, L’invenzione della libertà di stampa, Roma, Carrocci Editore, 2011.
[5] F.J. Ansuàtegui Roig, Libertà d’espressione: ragione e storia, Torino, G. Giappichelli editore, 2018.
[6] O. Bergamini, La Democrazia della Stampa. Storia del Giornalismo, Urbino, Editori Laterza, 2013, pp. 19-23.
[7] T.E. Frosini, Diritto pubblico comparato. Le democrazie stabilizzate, Bologna, Il Mulino, 2019.
[8] F.J. Ansuàtegui Roig, Libertà d’espressione: ragione e storia, Torino, G. Giappichelli editore, 2018.
[9] T.E. Frosini, Diritto pubblico comparato. Le democrazie stabilizzate, Bologna, Il Mulino, 2019.
[10] P. Allotti, La Libertà di Stampa. Dal XVI secolo a oggi, Il Mulino, Bologna, 2020.
[11] E. Tortarolo, L’invenzione della libertà di stampa, Roma, Carrocci Editore, 2011.
[12] P. Allotti, La Libertà di Stampa. Dal XVI secolo a oggi, Il Mulino, Bologna, 2020.
[13] F.J. Ansuàtegui Roig, Libertà d’espressione: ragione e storia, Torino, G. Giappichelli editore, 2018.
[14] P.Allotti, La Libertà di Stampa. Dal XVI secolo a oggi, Il Mulino, Bologna, 2020.
[15] E. Tortarolo, L’invenzione della libertà di stampa, Roma, Carrocci Editore, 2011.
[16] F.J. Ansuàtegui Roig, Libertà d’espressione: ragione e storia, Torino, G. Giappichelli editore, 2018.
[17] O. Bergamini, La Democrazia della Stampa. Storia del Giornalismo, Urbino, Editori Laterza, 2013.
[18] R. Boggiani, Storia Della Libertà Di Stampa In Italia, Agenzia Il Segnalibro, Roma, 2012.
[19] E. Tortarolo, L’invenzione Della Libertà Di Stampa, Roma, Carrocci Editore, 2011.
[20] R. Boggiani, Storia Della Libertà Di Stampa In Italia, Agenzia Il Segnalibro, Roma, 2012.
[21] P. Allotti, La Libertà di Stampa. Dal XVI secolo a oggi, Il Mulino, Bologna, 2020.
[22] R. Boggiani, Storia Della Libertà Di Stampa In Italia, Agenzia Il Segnalibro, Roma, 2012.
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