Come abbiamo visto, nel corso del tempo sono state previste svariate provvidenze dirette e indirette: dapprima integrazioni al prezzo della carta e poi, con la l. n. 416/1981, misure assai più variegate.
Dal 1990, mentre gli ausili indiretti sono stati estesi a pressoché tutti gli operatori del settore, i contributi diretti sono stati mantenuti per le sole imprese considerate più deboli e meritevoli. A seguito della crisi economica scoppiata nel 2008, tali ultimi contributi sono stati ridotti e configurati come interessi legittimi, con la loro conseguente corresponsione solo entro i limiti di quanto stanziato nell’apposita voce del bilancio della Presidenza del Consiglio.
Ne è derivato uno specifico contenzioso, che ha investito anche la legittimità costituzionale delle scelte normative effettuate tra il 2008 e il 2012.
Nonostante la riconosciuta incoerenza interna di queste ultime, “che prima creano aspettative e poi autorizzano a negarle”, la Corte Costituzionale ha affermato di dover prendere atto della impossibilità di sostituire o integrare la disciplina in questione, riservata alla discrezionalità del Legislatore.
Ed è proprio qui che si fa estremamente serio il tema della compatibilità del sostegno pubblico con una reale libertà di stampa.
Che cosa è accaduto? Con regolamento di delegificazione (il d.P.R. 223/2010), il Governo ha proceduto alla “semplificazione e al riordino della disciplina di erogazione dei contributi all’editoria”, superando anche la loro configurazione – nel caso dell’integrazione del prezzo della carta – come diritti soggettivi.
Pertanto, in caso di insufficienza delle risorse, i contributi dovevano essere ripartiti in maniera proporzionalmente ridotta tra tutti coloro che ne avevano titolo. È stato anche disposto che i dati circa la tiratura, la distribuzione complessiva nelle sue diverse modalità, nonché la vendita di quotidiani e periodici dovessero essere analiticamente certificati da una società di revisione iscritta nell’apposito albo tenuto dalla Consob.
Molte previsioni del d.P.R. 223, però, sono state rapidamente superate, in particolare riguardo ai contributi diretti (nonché alle agevolazioni postali, sospese per mancanza di fondi a partire dal 1° aprile 2010). Infatti, inizialmente l’art. 29, c. 3, d.l. 201/2011 (c.d. “Salva Italia”, convertito, con modificazioni, nella l. 214/2011), allo scopo di contribuire all’obiettivo del pareggio di bilancio entro la fine del 2013, aveva disposto la cessazione, alla data del 31 dicembre 2014 (con riferimento alla gestione 2013), del sistema di sostegno diretto di cui alla l. n. 250/1990.
Nel contempo aveva previsto che il Governo provvedesse, entro il 1° gennaio 2012, a rivedere il d.P.R. 223, “al fine di conseguire il risanamento della contribuzione pubblica, una più rigorosa selezione dell’accesso alle risorse, nonché [ulteriori] risparmi nella spesa pubblica (che, compatibilmente con le esigenze di pareggio di bilancio, sarebbero stati indirizzati a favore della ristrutturazione delle aziende già beneficiarie della contribuzione diretta, dell’innovazione tecnologica del settore, del contenimento dell’aumento del costo delle materie prime, dell’informatizzazione della rete distributiva)”.
Decorso inutilmente il termine di cui sopra, il d.l. 63/2012 (recante “Disposizioni urgenti in materia di riordino dei contributi alle imprese editrici, nonché di vendita della stampa quotidiana e periodica e di pubblicità istituzionale”), convertito, con modificazioni, nella l. 103/2012, ha superato le previsioni del decreto-legge “Salva Italia”, adottando comunque alcune misure per razionalizzare l’utilizzo delle risorse nell’ambito del transitorio sistema vigente, “in conformità con le finalità” del succitato art. 29, comma 3.
Più in particolare, per accedere ai contributi diretti, a decorrere da quelli relativi al 2013, occorrevano una percentuale minima di vendita delle pubblicazioni e un numero minimo di dipendenti delle imprese editoriali. Sono stati rivisti anche i criteri di calcolo e di liquidazione dei contributi (stabilendosi altresì che il loro importo non potesse comunque superare quello riferito all’anno 2010) ed è stata introdotta una nuova disciplina per le sovvenzioni a favore dei periodici stampati o diffusi all’estero e dell’editoria elettronica.
Nel frattempo, gli stanziamenti complessivi a disposizione per i contributi diretti all’editoria sono diminuiti di anno in anno e, benché la larga maggioranza dei quotidiani (che rappresentano il 90% delle copie diffuse in Italia) non abbia avuto accesso ad essi, anche quelli assegnati alle restanti testate hanno dovuto essere decurtati. Di qui il ricorso giudiziario esperito dalla società Ediservice, editrice de “Il Quotidiano di Sicilia”, nell’ambito del quale è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale conclusasi con la sentenza n. 206/2019, già menzionata.
La Corte Costituzionale parte da premesse che confermano orientamenti consolidati: Il “diritto all’informazione”, garantito (sia pure senza essere oggetto di una specifica disciplina) dall’art. 21 Cost., «deve essere caratterizzato dal pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze e notizie − che comporta, fra l’altro, il vincolo al Legislatore di impedire la formazione di posizioni dominanti e di favorire l’accesso del massimo numero possibile di voci diverse − in modo tale che il cittadino possa essere messo in condizione di compiere le sue valutazioni avendo presenti punti di vista differenti e orientamenti culturali contrastanti». Tuttavia, la rilevanza costituzionale della libertà di informazione non comporta «che esista in via generale un diritto soggettivo delle imprese editrici a misure di sostegno dell’editoria». Il Legislatore può naturalmente attribuire, nella sua discrezionalità, un diritto di tal genere alle imprese editoriali, ma non è obbligato a farlo dalla Costituzione, perché «i presìdi offerti dall’ordinamento a tutela del pluralismo informativo e del mercato risultano idonei ad assicurare tale valore, cosicché la garanzia del pur fondamentale diritto in questione non impone l’intervento finanziario dello Stato».
In tale contesto, rientra nella discrezionalità del Legislatore non solo decidere se concedere forme di sostegno, ma anche se affidare al Governo la determinazione della misura dei contributi all’editoria. In questa ipotesi, tuttavia, devono esserci “criteri certi e obiettivi”, la cui mancanza “non è ragionevole”.
Senonché, per lungo tempo gli interventi pubblici si sono limitati a disporre contributi “a pioggia”, prevalentemente legati al consumo di carta, che si sono risolti in un aiuto economico essenzialmente per i produttori di tale materia prima, senza giovare in modo sostanziale alla solidità economica delle imprese editoriali. E, dopo un periodo di regole certe – anche se non necessariamente efficaci – fissate dalle ll. n. 416/1981 e n. 250/1990, nel pieno della crisi economica intervenuta a partire dal 2008 molte imprese editrici si sono ritrovate ad essere, «da un lato, … destinatarie di norme che le vedono come titolari di diritti rispetto all’allocazione delle risorse in questione; dall’altro, … esposte al rischio di un parziale o addirittura totale taglio delle risorse stesse».
Un sistema «affetto da una incoerenza interna, dovuta a scelte normative che prima creano aspettative e poi autorizzano a negarle». «È allora evidente che in un settore come quello in esame, caratterizzato dalla presenza di un diritto fondamentale, vi è l’esigenza che il quadro normativo sia ricondotto a trasparenza e chiarezza, e in particolare che l’attribuzione delle risorse risponda a criteri certi e obiettivi».
Tuttavia, la Corte costituzionale ha dovuto prendere atto della impossibilità di sostituire o integrare la disciplina in questione, riservata alla discrezionalità del Legislatore. Dunque, oltre a ridurre i fondi stanziati per il sostegno all’editoria, il Legislatore degli anni duemila ha affidato al Governo la determinazione dell’entità dei contributi, e non più soltanto la verifica dei requisiti per accedervi e la distribuzione degli stessi.
Infatti, come ha evidenziato anche la Corte costituzionale, «nel bilancio della Presidenza del Consiglio dei ministri, in corrispondenza con il bilancio dello Stato (capitoli MEF), è prevista una missione “Comunicazioni”, comprensiva di una pluralità di interventi, fra i quali quelli a favore dell’editoria. Il riparto delle disponibilità finanziarie fra tali interventi è rimesso alla stessa Presidenza, cosicché l’assegnazione dei fondi al settore in questione rimane subordinata a scelte discrezionali circa la distribuzione delle risorse». Se «ciò, evidentemente, rientra nella logica dell’attuale sistema di bilancio e non è incoerente con l’assetto generale della finanza pubblica delineato dalla normativa dettata nel tempo», si pongono fondati dubbi riguardo alla «violazione del principio di ragionevolezza in combinazione con gli artt. 21 e 97 Cost., in quanto la determinazione dell’ammontare del contributo affidata alla discrezionalità del Governo, senza l’indicazione di criteri oggettivi, contrasterebbe con il principio di imparzialità e trasparenza della pubblica amministrazione, non garantendo l’attribuzione di contributi significativi e adeguati e rendendo così difficoltosa l’indipendenza e la pluralità dell’informazione» (§10 cons. dir.).
Infatti, mentre l’art. 3, c. 3, della l. 250/1990, come già ricordato, riconosce «alle imprese editrici di periodici che risultino esercitate da cooperative, fondazioni o enti morali, ovvero da società la maggioranza del capitale sociale delle quali sia detenuta da cooperative, fondazioni o enti morali che non abbiano scopo di lucro» un contributo annuo stabilito in un ammontare per ogni copia stampata, fino ad un determinato numero di copie, indipendentemente dal numero delle testate; l’art. 44, d.l. 112/2008 – ribadito dall’art. 2, c. 1, d.l. 63/2012 – ha sancito che la loro corresponsione debba sempre tenere «conto delle somme complessivamente stanziate nel bilancio dello Stato per il settore dell’editoria, che costituiscono limite massimo di spesa», disponendo altresì che le erogazioni siano da destinarsi prioritariamente ai contributi diretti e, per le residue disponibilità, alle altre tipologie di agevolazioni.
Così, come già evidenziato, «le imprese editrici, da un lato, sono destinatarie di norme che le vedono come titolari di diritti rispetto all’allocazione delle risorse in questione; dall’altro, sono esposte al rischio di un parziale o addirittura totale taglio delle risorse stesse. Ecco perché “il sistema è dunque affetto da una incoerenza interna, dovuta a scelte normative che prima creano aspettative e poi autorizzano a negarle».
Tale conclusione non ha condotto, tuttavia, ad una dichiarazione di illegittimità delle norme che autorizzano a negare i contributi pubblici, né ad una loro interpretazione costituzionalmente corretta.
Infatti, di fronte alle questioni relative all’art. 44, c. 1, d.l. 112/2008 (convertito, con modificazioni, nella l. 133/2008), all’art. 2, c. 62, l. 191/2009 (legge finanziaria 2010) ed all’art. 2, c. 1, d.l. 63/2012 (convertito, con modificazioni, nella l. 103/2012), sollevate dal Tribunale ordinario di Catania in relazione agli artt. 3 (sotto il profilo del principio di ragionevolezza), 21 e 97 Cost., la Consulta ha concluso che «devono essere dichiarate inammissibili», in quanto «l’armonizzazione del sistema non impone una soluzione costituzionalmente obbligata, e quindi non può essere oggetto di intervento di questa Corte, restando affidata alla scelta del Legislatore».
Secondo Silvio Troilo, i contributi diretti sono stati così oggetto di una «configurazione in ogni caso come interessi legittimi alla corresponsione delle provvidenze (ora erogate nei limiti degli stanziamenti previsti)»[1].
Di parere diametralmente opposto, invece, Roberto Carleo: «…. Così non è. Il diritto al contributo diretto resta senz’altro un diritto soggettivo (sebbene non “costituzionale”) e la sua ridotta soddisfazione nei limiti degli stanziamenti previsti non ne degrada la qualificazione come situazione giuridica soggettiva. Ed invero il diritto soggettivo al contributo diretto resta originato dalla legge che ne fissa i presupposti, e non dipende da una valutazione autoritativa e discrezionale della pubblica amministrazione, che non potrebbe autonomamente negare o rideterminare il diritto individuale di un editore, diversamente che da un altro, bensì (ove ricorrano i presupposti di legge) deve senz’altro procedere alla paritaria ed eguale soddisfazione di tutti i contributi dovuti, sebbene erogabili soltanto nei limiti dello stanziamento disponibile, salvi eventuali conguagli che potrebbero pur sempre sopravvenire, con ciò accrescendo (in tutto o in parte, nel tanto o nel poco che sia) la misura percentuale di soddisfazione del diritto soggettivo stesso, che resta inalterato, sebbene solo in parte soddisfatto»[2].
Se sia possibile configurare un diritto soggettivo “che resta inalterato, sebbene solo in parte soddisfatto” (e potrebbe non esserlo mai, non avendo lo Stato alcun obbligo in tal senso), non sappiamo con precisione.
Ai fini del presente studio occorre rilevare che, in ogni caso, i dubbi della Corte Costituzionale sulla effettiva tutela dell’indipendenza e della pluralità dell’informazione sono più che fondati. Un sistema di sostegno pubblico lasciato alla discrezionalità dello Stato nel “quantum” rischia di essere seriamente incompatibile con la libertà di stampa.
[1] 7 S. Troilo, La parabola delle sovvenzioni all’editoria, tra regole costituzionali e discrezionalità del legislatore. Riflessioni a margine della sentenza n. 206/2019 della Corte costituzionale, in Media Laws, Rivista di diritto dei media, 3, 2019, pag. 37 ss., specie p. 56.
[2] R. Carleo, Il diritto soggettivo degli editori ai contributi pubblici come garanzia della libertà, del pluralismo e dell’imparzialità dell’informazione, in Diritto ed Economia dei Mezzi di Comunicazione Anno XVII, numero 3 • 2021, pag. 63, nota 18.
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