Sul diritto all’oblio che, come è noto, ha molte importanti conseguenze sulla gestione delle imprese editoriali, riportiamo due importanti principi della Corte di Cassazione sulla corretta ponderazione tra il diritto alla libertà di informazione, nei profili attivo e passivo, come libertà di informare e di essere informati, e il diritto del singolo a non restare indefinitamente esposto alle conseguenze di una vicenda lontana nel tempo, subendo gravi danni alla propria immagine sociale.
Nel primo caso, ordinanza 7559/2020, abbiamo riportato solo il principio di diritto, mentre nel secondo abbiamo riportato stralci della motivazione, utili a comprendere i fondamenti logico-giuridici sui quali la Suprema Corte fonda le proprie decisioni, che appaiono interamente condivisibili.
Ordinanza della prima sezione civile n. 7559/2020. La Suprema Corte di Cassazione ha definitivamente sancito il principio in base al quale:
“È lecita la permanenza di un articolo di stampa nell’archivio informatico di un quotidiano, relativo a fatti risalenti nel tempo oggetto di cronaca giudiziaria, che abbiano ancora un interesse pubblico di tipo storico o socio-economico, purché l’articolo sia deindicizzato dai siti generalisti e reperibile solo attraverso l’archivio storico del quotidiano, in tal modo contemperandosi in modo bilanciato il diritto ex art. 21 Cost, della collettività ad essere informata e a conservare memoria del fatto storico, con quello del titolare dei dati personali archiviati a non subire una indebita compressione della propria immagine sociale”.
Cassazione civile sez. I, sentenza 08/02/2022, n. 3952
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno ricondotto la deindicizzazione al “diritto alla cancellazione dei dati”, nel quadro di una classificazione che considera il medesimo come una delle tre possibili declinazioni del diritto all’oblio: le altre due sono individuate nel diritto a non vedere nuovamente pubblicate notizie relative a vicende in passato legittimamente diffuse, quando è trascorso un certo tempo tra la prima e la seconda pubblicazione e quello, connesso all’uso di internet e alla reperibilità delle notizie nella rete, consistente nell’esigenza di collocare la pubblicazione, avvenuta legittimamente molti anni prima, nel contesto attuale [1]. Sia la contestualizzazione dell’informazione che la deindicizzazione trovano ragione in un dato che innegabilmente connota l’esistenza umana nell’era digitale: un dato che si riassume, secondo una felice espressione, nella “stretta della persona in una eterna memoria collettiva, per una identità che si ripropone, nel tempo, sempre uguale a sé stessa”[2].
Non occorre qui indugiare sul rilievo per cui, nel mondo segnato dalla presenza di internet, in cui le informazioni sono affidate a un supporto informatico, le notizie sono sempre reperibili a distanza di anni dal verificarsi degli accadimenti che ne hanno imposto o comunque suggerito la prima diffusione. Mette conto solo di rilevare come la deindicizzazione si sia venuta affermando come rimedio atto ad evitare che il nome della persona sia associato dal motore di ricerca ai fatti di cui internet continua a conservare memoria. In tal senso la deindicizzazione asseconda il diritto della persona a non essere trovata facilmente sulla rete (si parla in proposito di right not to be found easily): lo strumento vale cioè ad escludere azioni di ricerca che, partendo dal nome della persona, portino a far conoscere ambiti della vita passata di questa che siano correlati a vicende che in sé – si badi – presentino ancora un interesse (e che non possono perciò essere totalmente oscurate), evitando che l’utente di internet, il quale ignori il coinvolgimento della persona nelle vicende in questione, si imbatta nelle relative notizie per ragioni casuali, o in quanto animato dalla curiosità di conoscere aspetti della trascorsa vita altrui di cui la rete ha ancora memoria (una memoria facilmente accessibile, nei suoi contenuti, proprio attraverso l’attività dei motori di ricerca). Come ricordato dalla Corte di Lussemburgo, l’inclusione nell’elenco di risultati – che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona – di una pagina web e delle informazioni in essa contenute relative a questa persona, poiché facilita notevolmente l’accessibilità di tali informazioni a qualsiasi utente di internet che effettui una ricerca sulla persona di cui trattasi e può svolgere un ruolo decisivo per la diffusione di dette informazioni, è idonea a costituire un’ingerenza più rilevante nel diritto fondamentale al rispetto della vita privata della persona interessata che non la pubblicazione da parte dell’editore della suddetta pagina web (Corte giust. Google Spain e Google, 87).
La deindicizzazione ha, così, riguardo all’identità digitale del soggetto: e ciò in quanto l’elenco dei risultati che compare in corrispondenza del nome della persona fornisce una rappresentazione dell’identità che quella persona ha in internet. E’ stato in proposito sottolineato, sempre dalla Corte di giustizia, che “l’organizzazione e l’aggregazione delle informazioni pubblicate su internet, realizzate dai motori di ricerca allo scopo di facilitare ai loro utenti l’accesso a dette informazioni, possono avere come effetto che tali utenti, quando la loro ricerca viene effettuata a partire dal nome di una persona fisica, ottengono attraverso l’elenco di risultati una visione complessiva strutturata delle informazioni relative a questa persona reperibili su internet, che consente loro di stabilire un profilo più o meno dettagliato di quest’ultima” (Corte giust. UE, Google Spain e Google, cit., 37).
L’attività del motore di ricerca si mostra in altri termini incidente sui diritti fondamentali alla vita privata e alla protezione dei dati personali (cfr., in particolare, Corte giust. UE, Google Spain e Google, cit., 38): e tuttavia, poiché la soppressione di link dall’elenco di risultati potrebbe avere, a seconda dell’informazione in questione, ripercussioni sul legittimo interesse degli utenti di internet potenzialmente interessati ad avere accesso a quest’ultima, occorre ricercare un giusto equilibrio tra tale interesse e i diritti fondamentali della persona di cui trattasi, derivanti dagli artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea [3] .
Occorre però considerare che questa esigenza di bilanciamento tra l’interesse del singolo ad essere dimenticato e l’interesse della collettività ad essere informata – cui si correla l’interesse dei media a informare – permea l’intera area del diritto all’oblio, di cui quello alla deindicizzazione può considerarsi espressione; va rammentato, in proposito, quanto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte nel campo della rievocazione storica, a mezzo della stampa, di fatti e vicende concernenti eventi del passato: rievocazione rispetto alla quale è stato affermato l’obbligo, da parte del giudice del merito, di valutare l’interesse pubblico, concreto ed attuale, alla menzione degli elementi identificativi delle persone che di quei fatti e di quelle vicende furono protagonisti [4]. Nello stesso senso, la giurisprudenza della Corte EDU è ferma, da tempo, nel postulare un giusto equilibrio tra il diritto al rispetto della vita privata di cui all’art. 8 CEDU e il diritto alla libertà d’espressione di cui al successivo art. 10, che include “la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee” e ha individuato, a tal fine, precisi criteri per la ponderazione dei diritti concorrenti: il contributo della notizia a un dibattito di interesse generale, il grado di notorietà del soggetto, l’oggetto della notizia; il comportamento precedente dell’interessato, le modalità con cui si ottiene l’informazione, la sua veridicità e il contenuto, la forma e le conseguenze della pubblicazione (si vedano, ad esempio: Corte EDU 19 ottobre 2017, Fuchsmann c. Germania, 32; Corte EDU 10 novembre 2015, Couderc et Hachette Filipacchi c. Francia, 93: sulla necessità del giusto equilibrio tra il diritto al rispetto della vita privata, da un lato, e la libertà di espressione e la libertà di informazione del pubblico, dall’altro, cfr. pure Corte EDU 28 giugno 2018, M.L. e W.W. c. Germania, 89).
Come è evidente, la deindicizzazione dei contenuti presenti sul web rappresenta, il più delle volte, l’effettivo punto di equilibrio tra gli interessi in gioco. Essa integra, infatti, la soluzione che, a fronte della prospettata volontà, da parte dell’interessato, di essere dimenticato per il proprio coinvolgimento in una vicenda del passato, realizza il richiamato bilanciamento escludendo le estreme soluzioni che sono astrattamente configurabili: quella di lasciare tutto com’è e quella di cancellare completamente la notizia dal web, rimuovendola addirittura dal sito in cui è localizzata.
E’ da rammentare, in proposito, che attraverso la deindicizzazione l’informazione non viene eliminata dalla rete, ma può essere attinta raggiungendo il sito che la ospita (il cosiddetto sito sorgente) o attraverso altre metodologie di ricerca, come l’uso di parole-chiave diverse: ciò che viene in questione è, infatti, per usare le parole della Corte di giustizia, il diritto dell’interessato “a che l’informazione in questione riguardante la sua persona non venga più, allo stato attuale, collegata al suo nome da un elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal suo nome” (così Corte giust. UE, Google Spain e Google, cit., 99). In altri termini, con la deindicizzazione viene in discorso la durata e la facilità di accesso ai dati, non la loro semplice conservazione su internet (Corte EDU, 25 novembre 2021, Biancardi c. Italia, 50). La neutralità della deindicizzazione operata a partire da nome dell’interessato rispetto ad altri criteri di ricerca è stato del resto sottolineato dalle Linee-guida sull’attuazione della sentenza della Corte di giustizia nel caso C-131/12, elaborate dal Gruppo di lavoro “Art. 29″: in dette Linee-guida viene ricordato come la citata pronuncia non ipotizzi la necessità di una cancellazione completa delle pagine dagli indici del motore di ricerca e che dette pagine dovrebbero restare accessibili attraverso ogni altra chiave di ricerca. Tale avvertenza non è difforme da quella contenuta nelle Linee-guida 5/2019 che dettano ” criteri per l’esercizio del diritto all’oblio nel caso dei motori di ricerca, ai sensi del RGPD” (reg. 2016/679), adottate il 7 luglio 2020: è ivi evidenziato che la deindicizzazione di un particolare contenuto determina la cancellazione di esso dall’elenco dei risultati di ricerca relativi all’interessato, quando la ricerca e’, in via generale, effettuata a partire dal suo nome; in conseguenza, il contenuto deve restare disponibile se vengano utilizzati altri criteri di ricerca e le richieste di deindicizzazione non comportano la cancellazione completa dei dati personali, i quali non devono essere cancellati né dal sito web di origine né dall’indice e dalla cache del fornitore del motore di ricerca (punti 8 e 9).
In tal senso, questa Corte ha avuto modo di ritenere, di recente, che il bilanciamento tra il diritto della collettività ad essere informata e a conservare memoria del fatto storico, con quello del titolare dei dati personali a non subire una indebita compressione della propria immagine sociale possa essere soddisfatto assicurando la permanenza dell’articolo di stampa relativo a fatti risalenti nel tempo oggetto di cronaca giudiziaria nell’archivio informatico del quotidiano, a condizione, però, che l’articolo sia deindicizzato dai siti generalisti [5]. Similmente, si è reputato che la tutela del diritto consistente nel non rimanere esposti senza limiti di tempo a una rappresentazione non più attuale della propria persona con pregiudizio alla reputazione ed alla riservatezza, a causa della ripubblicazione sul web, a distanza di un importante intervallo temporale, di una notizia relativa a fatti del passato, possa trovare soddisfazione – nel quadro dell’indicato bilanciamento del diritto stesso con l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto, espressione del diritto di manifestazione del pensiero e quindi di cronaca e di conservazione della notizia per finalità storico-sociale e documentaristica – anche nella sola deindicizzazione dell’articolo dai motori di ricerca [6].
In questa sede, come si è detto, non è controversa la legittimità della deindicizzazione (e quindi della ponderazione degli interessi che doveva presiedere all’adozione di tale misura), ma si censura, piuttosto, la decisione del Tribunale con cui è stato reputato conforme al diritto l’ordine, impartito dal Garante, di procedere alla cancellazione delle copie cache delle pagine internet accessibili attraverso gli URL degli articoli di stampa relativi alla vicenda “(OMISSIS)”.
La copia cache dei siti internet indicizzati consente al motore di ricerca di fornire una risposta più veloce ed efficiente all’interrogazione posta dall’utente attraverso una o più parole chiave. La cancellazione di esse preclude al motore di ricerca, nell’immediato, di avvalersi di tali copie per indicizzare i contenuti attraverso parole chiave anche diverse da quella corrispondente al nome dell’interessato. Detta cancellazione impedisce, inoltre, l’utilizzo di nuove copie cache che siano equivalenti a quelle cui si riferisce l’adottata statuizione, nella misura in cui si ritenga che tale ordine abbia il contenuto di una “ingiunzione dinamica”, estendendo la propria portata a tutte le copie, di contenuto sostanzialmente invariato rispetto a quelle cui si riferisce l’ordine, che il motore di ricerca possa realizzare nel futuro: è da ricordare, in proposito, che, seppure ad altro proposito, con riferimento ai servizi di hosting, la Corte di giustizia si è già pronunciata nel senso di ammettere, a determinate condizioni, ordini aventi ad oggetto informazioni già memorizzate, il cui contenuto sia identico o comunque equivalente a quello di un’informazione precedentemente dichiarata illecita, o di bloccare l’accesso alle medesime (Corte giust. UE, 3 ottobre 2019, Eva Glawischnig-Piesczek, C-18/18, 53).
Come rilevato, la deindicizzazione produce l’effetto di escludere che una certa notizia, riguardante una determinata persona, venga collegata al nome di questa attraverso un elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome predetto. E’ in tal senso che la deindicizzazione può attuare il divisato bilanciamento: l’interesse alla conoscenza dell’informazione riguardante il fatto è salvaguardato attraverso l’accesso al sito, o alla copia di esso, che si attua attraverso altre chiavi di ricerca; ma è tutelata, al contempo, la sfera personale del soggetto coinvolto nella vicenda, giacché la deindicizzazione esclude che l’utente di internet possa apprendere del fatto storico in conseguenza di una ricerca nominativa che miri ad altri risultati o che sia animata da mera curiosità per aspetti della vita altrui su cui l’interessato voglia mantenere il riserbo.
Se è astrattamente ipotizzabile l’adozione di una misura più radicale di quella appena indicata – una misura che quindi impedisca, o renda più difficile, nei fatti, al motore di ricerca di indirizzare l’utente alla notizia presente sul web, quali che siano le chiavi di ricerca che si possano a tal fine utilizzare -, è necessario, a mente di quanto sopra osservato, che un tale risultato rifletta una precisa ponderazione dei contrapposti interessi: che, in particolare, sia dato nella fattispecie di ravvisare una prevalenza dei diritti fondamentali della persona rispetto alla libertà dell’informazione, riguardante il fatto occorso, che sia tale da giustificare un provvedimento di tale contenuto. Non è superfluo ricordare, al riguardo, che, in base alla Raccomandazione CM/Rec(2012)3 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri sulla protezione dei diritti umani in relazione ai motori di ricerca, un prerequisito per l’esistenza di motori di ricerca efficaci è la libertà di scansionare e indicizzare le informazioni disponibili su internet: è ivi rammentato che il filtraggio e il blocco dei contenuti di internet da parte dei fornitori di motori di ricerca comporta infatti il rischio di violazione della libertà di espressione garantita dall’art. 10 della CEDU per quanto riguarda i diritti dei fornitori e degli utenti di distribuire e accedere alle informazioni.
Nella sentenza impugnata il Tribunale ha osservato, che la misura adottata dal Garante risultava essere conforme ai principi ispiratori del reg. (UE) 2016/679, il quale prevede il diritto a una cancellazione estesa dei dati personali oggetto del trattamento. Con ciò è stata postulata una sorta di automatismo tra deindicizzazione a partire dal nome e cancellazione del dato (nel caso presente nelle copie cache).
In realtà, il regolamento del 2016 è pacificamente inapplicabile alla presente controversia.
Sono stati inoltre avanzati dei dubbi, in dottrina, circa la portata innovativa della disciplina sulla cancellazione introdotta dall’art. 17 del regolamento, il quale – si è osservato – replicherebbe, con alcune puntualizzazioni, i contorni di un diritto alla cancellazione dei dati personali che era presente anche nella dir. 95/46/CE: il richiamo è alla disciplina dell’art. 12, lett. b), di tale direttiva, il quale contempla il diritto ad ottenere dal responsabile del trattamento la rettifica, la cancellazione o il congelamento dei dati il cui trattamento non risulti essere conforme alle disposizioni della direttiva medesima.
In ogni caso, poi, il diritto dell’interessato di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali non opera, a norma dell’art. 17.3, lett. a), nella misura in cui il trattamento sia necessario per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione; è quindi confermato che anche nella vigenza del regolamento 2016/679 opera quell’esigenza di bilanciamento di cui si è detto: circostanza, questa, che la Corte di giustizia, come in precedenza accennato, non ha mancato di sottolineare (Corte giust. UE, G.C. e altri, cit., 66 e 75; un preciso riferimento all’art. 17 è contenuto nel par. 59).
A fronte della richiesta di cancellazione delle copie cache rimane dunque centrale l’esigenza di ponderare gli interessi contrapposti. Ma il bilanciamento da compiersi non coincide, in questo caso, con quello operante ai fini della deindicizzazione, giacché l’eventuale sacrificio del diritto all’informazione non ha ad oggetto una notizia raggiungibile attraverso una ricerca condotta a partire del nome della persona, in funzione del richiamato diritto di questa a non essere trovata facilmente sulla rete, quanto la notizia in sé considerata, siccome raggiungibile attraverso ogni diversa chiave di ricerca. Il diritto all’informazione è, cioè, sempre collegato all’attività del motore di ricerca di cui si avvale l’utente, ma in funzione della residua capacità di questo di indirizzare all’informazione attraverso distinte e ulteriori modalità di interrogazione. Come è evidente, nella misura in cui, attraverso l’ordine di cancellazione delle copie cache, si esclude o si rende più difficoltoso il reperimento, da parte del motore di ricerca, della notizia attraverso l’uso di parole chiave, si delinea la necessità di una ponderazione che tenga conto non più dell’interesse a che il nome della persona sia dissociato dal motore di ricerca dall’informazione di cui trattasi, ma dell’interesse a che quella informazione non sia rinvenuta attraverso un qualsiasi diverso criterio di interrogazione.
La circostanza, rimarcata dal pubblico ministero nelle conclusioni da ultimo rassegnate D.L. n. 137 del 2020, ex art. 23, comma 8 bis, convertito dalla L. n. 176 del 2020 (pagg. 9 s.), per cui il mantenimento delle copie cache permette, in via di principio, “la perpetuazione – ancorché in modo più evanescente dal punto di vista informatico – del reperimento della stessa notizia e di quel dato che l’interessato ha chiesto di eliminare, dunque consente il mantenimento di una “memoria” del dato nonostante lo scorrere del tempo” non basta, da sola, a dar ragione della misura adottata, giacché, a mente di quanto sopra rilevato, occorre verificare preventivamente se esista un interesse pubblico alla diffusione e acquisizione della notizia.
Ora, il giudizio del Tribunale appare calibrato sulla vicenda personale dell’odierno controricorrente. Tenuto conto che nel caso in esame venivano in questione articoli giornalistici e ulteriori contenuti riguardanti la vicenda “(OMISSIS)”, era necessario non solo prendere in considerazione i dati personali di D.B. e verificare l’interesse a conoscere atti di indagine relativi allo stesso (cfr. sentenza impugnata, pag. 12), ma, in senso più ampio, l’interesse a continuare ad essere informati sulla vicenda di cronaca nel suo complesso, per come accessibile attraverso l’attività del motore di ricerca.
Deve pertanto concludersi nel senso che la cancellazione delle copie cache relative a una informazione accessibile attraverso il motore di ricerca, in quanto incidente sulla capacità, da parte del detto motore di ricerca, di fornire una risposta all’interrogazione posta dall’utente attraverso una o più parole chiave, non consegue alla constatazione della sussistenza delle condizioni per la deindicizzazione del dato a partire dal nome della persona, ma esige una ponderazione del diritto all’oblio dell’interessato col diritto avente ad oggetto la diffusione e l’acquisizione dell’informazione, relativa al fatto nel suo complesso, attraverso parole chiave anche diverse dal nome della persona.
[1] Cass. Sez. U. 22 luglio 2019, n. 19681, in motivazione.
[2] Così, in motivazione, Cass. 19 maggio 2020, n. 9147.
[3] Corte giust. UE, Google Spain e Google, cit., 81; il tema è affrontato anche da Corte giust. UE, Grande sezione, 24 settembre 2019, G.C. e altri, cit., 66 e 75, ove è precisato che il gestore del motore di ricerca deve comunque verificare – alla luce dei motivi di interesse pubblico rilevante di cui all’art. 8.4, della dir. 95/46/CE o all’art. 9.2, lett. g), del reg. (UE) 2016/679, e nel rispetto delle condizioni previste da tali disposizioni – se l’inserimento del link, verso la pagina web in questione, nell’elenco visualizzato in esito a una ricerca effettuata a partire dal nome della persona interessata, sia necessario per l’esercizio del diritto alla libertà di informazione degli utenti di internet potenzialmente interessati ad avere accesso a tale pagina web attraverso siffatta ricerca, libertà protetta dall’art. 11 della Carta suddetta.
[4] In tal senso Cass. Sez. U. 22 luglio 2019, n. 19681, cit.
[5] Cass. 27 marzo 2020, n. 7559.
[6] Cass. 19 maggio 2020, n. 9147.
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