Le FAQ del Dipartimento Editoria della Presidenza del Consiglio sul credito di imposta su investimenti pubblicitari incrementali, aggiornate al 9 ottobre 2018, presentano aggiuntive precisazioni in merito agli investimenti effettuati attraverso le società concessionarie di pubblicità.
Il 9 ottobre scorso, il DIE ha fornito addizionali precisazioni in merito agli investimenti pubblicitari effettuati attraverso società concessionarie.
Accade spesso, infatti, che l’attività di ricerca e di acquisizione della pubblicità non sia gestita dai media direttamente, ma tramite società specializzate (concessionarie) alle quali viene affidato sostanzialmente un incarico di mandato, al di là delle possibili diverse configurazioni del rapporto.
In tal caso, l’operatore economico che intende acquistare spazi pubblicitari su un giornale cartaceo o online, o su una emittente radiofonica o televisiva locale, deve necessariamente rivolgersi alla concessionaria, non potendo trattare direttamente con l’editore; ed i costi della pubblicità sono sovente fatturati al committente nel loro ammontare complessivo.
Tramite una FAQ pubblicata sul proprio sito, il Dipartimento Editoria ha risposto a questa precisa domanda:
“Noi abbiamo a disposizione un monte spesa da destinare alla pubblicità on line su testate giornalistiche, ma invece di acquistarle direttamente da ciascuna testata, ci affideremmo ad una Concessionaria di Spazi Web, che non è un editore ma che acquista spazi da editori, e che ci rilascerebbe unica fattura con elenco delle testate su cui i nostri banner compariranno con preciso numero di impression per ogni testata. Sarebbe quindi sufficiente avere come giustificativo la fattura sopramenzionata con elenco testate e numero dei click ottenuti su ciascuna precisa testata giornalistica (il che dimostrerebbe che un investimento è stato fatto su quella testata), oppure per ottenere il bonus è necessario presentare un giustificativo della cifra spesa che provenga dalla testata giornalistica stessa?”.
Il Dipartimento ha ritenuto che le fatture delle società concessionarie siano ammissibili per l’intero importo, così argomentando:
– le somme complessivamente fatturate da società concessionarie della raccolta pubblicitaria sono interamente ammissibili ai fini del calcolo del credito d’imposta, in quanto costituiscono, per l’operatore economico committente, l’effettiva spesa sostenuta per l’acquisto degli spazi, prevista dall’articolo 3, comma 2, del Regolamento (DPCM n. 90 del 16 maggio 2018);
– diversamente, devono ritenersi escluse dal calcolo del credito d’imposta le spese sostenute dagli operatori economici che scelgano di avvalersi di servizi di consulenza o intermediazione o di altro genere, perché in tali casi, si tratterebbe effettivamente di servizi “accessori”, il cui costo normalmente evidenziabile non può legittimamente concorrere al calcolo del credito d’imposta.
Riportiamo, di seguito, il testo integrale della FAQ:
Ulteriori precisazioni in merito agli investimenti pubblicitari effettuati attraverso società concessionarie
«Sono pervenute ulteriori richieste di chiarimento in merito all’ammissibilità delle spese per investimenti pubblicitari effettuati su giornali ovvero su emittenti radiofoniche o televisive che non gestiscono autonomamente la raccolta pubblicitaria; tali richieste sono state indotte, in qualche modo, anche da alcuni elementi contenuti nella risposta già pubblicata in relazione ai precedenti quesiti sul tema.
Si tratta di una questione rilevante, in considerazione del fatto che molto spesso l’attività di ricerca e di acquisizione della pubblicità non è gestita dai media direttamente, ma tramite società specializzate (concessionarie) alle quali viene affidato sostanzialmente un incarico di mandato, al di là delle possibili diverse configurazioni del rapporto. È quindi necessario fornire un ulteriore chiarimento sul tema, tale da fugare i dubbi che sono emersi nel momento in cui si devono coniugare le prescrizioni del Regolamento, volte a salvaguardare la correttezza delle spese ammissibili, con alcuni aspetti rilevanti della realtà dei rapporti commerciali.
Ora, in primo luogo va riconosciuto il fatto che l’operatore economico che intende acquistare spazi pubblicitari su un giornale, o su una emittente radiofonica o televisiva, che abbiano affidato la raccolta pubblicitaria ad una società esterna, deve necessariamente rivolgersi a quest’ultima, non potendo trattare direttamente con l’editore.
E va altresì considerato, sempre nella stessa ipotesi, che i costi della pubblicità sono fatturati al committente nel loro ammontare complessivo, e questo per una serie di ragioni:
– sia perché, con tutta evidenza, la distinzione tra il “costo netto” degli spazi pubblicitari ed il costo del servizio svolto dalla società terza, anche nei casi nei quali fosse evidenziabile, non ha alcun rilievo nei confronti del committente, che è soggetto del tutto estraneo al rapporto contrattuale tra editore e società concessionaria;
– sia soprattutto perché, nella gran parte dei casi, il rapporto tra editore e società concessionaria è strutturato in modo complesso, sotto il profilo dei costi e della ripartizione degli utili, attraverso l’introduzione di parametri che tengono conto, tra l’altro, del volume complessivo della raccolta pubblicitaria effettuata in un determinato periodo; cosicché spesso non risulta possibile estrapolare, sul singolo contratto di acquisto di spazi, il costo del servizio svolto dalla società concessionaria; costo che, in ogni caso, avrebbe un significato puramente astratto, in quanto legato a parametri che prescindono dal singolo acquisto.
Si ritiene, pertanto, di poter chiarire che le somme complessivamente fatturate da società concessionarie della raccolta pubblicitaria sono interamente ammissibili ai fini del calcolo del credito d’imposta, in quanto costituiscono, per l’operatore economico committente, l’effettiva spesa sostenuta per l’acquisto degli spazi, prevista dall’articolo 3, comma 2, del Regolamento.
Diversamente, devono ritenersi escluse dal calcolo del credito d’imposta le spese sostenute dagli operatori economici che scelgano di avvalersi di servizi di consulenza o intermediazione o di altro genere; in questi casi, si tratterebbe effettivamente di servizi “accessori”, il cui costo – normalmente evidenziabile – non può legittimamente concorrere al calcolo del credito d’imposta».
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