La recente proposta del governo di regolare i contributi all’editoria basandosi sull’applicazione del salario del contratto giornalistico principale riapre una ferita storica nel mondo dell’informazione italiana. Una frattura che affonda le sue radici nel 1919, quando nacque il primo contratto nazionale del lavoro giornalistico.
Già allora il settore editoriale si divideva in due universi paralleli: i grandi quotidiani nazionali, economicamente solidi e strutturati, e l’editoria periodica locale, costantemente alla ricerca di sostenibilità economica. Ebbene, il contratto nazionale fu creato per i quotidiani e firmato con l’associazione che li rappresentava, da parte di giornalisti dipendenti degli stessi quotidiani, ai vertici della FNSI, con parametri economici corrispondenti alle dimensioni delle grandi aziende editoriali. Tutto il mondo dell’editoria locale e di nicchia fu ignorato.
Il principio dell’unicità del contratto giornalistico, nato per tutelare la dignità della professione, ha paradossalmente contribuito ad acuire questa divisione. Un principio apparentemente nobile che, tuttavia, non ha mai tenuto conto di una realtà fondamentale: le profonde differenze economiche e organizzative che caratterizzano il variegato mondo dell’editoria italiana.
Solo negli ultimi vent’anni si è iniziato a riconoscere questa complessità, con la creazione di contratti specifici per radio e TV locali, e successivamente per la stampa territoriale. Un processo di diversificazione contrattuale che risponde alle reali esigenze del settore e che oggi rischia di essere vanificato.
La rivoluzione digitale ha ulteriormente complicato il quadro. I giornali online locali, pur aggiornandosi quotidianamente come le grandi testate, operano con risorse economiche ancora più limitate rispetto ai loro predecessori cartacei. Nel mondo digitale, la distinzione tra quotidiani e periodici perde di significato: tutti i giornali online puntano sulla tempestività dell’informazione, ma con mezzi e possibilità profondamente diversi.
Il governo, nel suo tentativo di regolamentare i contributi all’editoria, sembra ignorare questa complessità. Imporre l’unicità del salario, parametrato sui livelli più alti del settore, non solo è economicamente insostenibile per molte realtà editoriali, ma rischia di provocare un duplice danno: la perdita di posti di lavoro nel settore dell’editoria minore e la possibile chiusura di numerose testate locali.
È tempo di abbandonare approcci uniformanti che non tengono conto della realtà del settore. Serve un momento di riflessione e confronto con tutte le associazioni di categoria, non solo con i rappresentanti dei grandi quotidiani. In gioco non c’è solo la sopravvivenza di centinaia di testate giornalistiche, ma la stessa libertà di stampa e di impresa nel nostro Paese.
Il pluralismo dell’informazione, pilastro fondamentale di ogni democrazia, passa anche attraverso il riconoscimento e la tutela delle diverse forme di giornalismo. Un obiettivo che può essere raggiunto solo attraverso una regolamentazione che sappia coniugare la tutela dei diritti dei lavoratori con la sostenibilità economica delle imprese editoriali. Solo così potremo garantire quella diversità di voci e prospettive che è alla base di un’informazione veramente libera e democratica.
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