La raccolta massiccia di dati è alla base dell’economia online e della maggior parte dei modelli di business rintracciabili in rete.
La maggior parte dei cosidetti big data sono raccolti e venduti a terzi da praticamente tutte le applicazioni e possono essere usati come arma. Una consapevolezza che sta prendendo sempre più forma negli ultimi anni, periodo in cui il fenomeno è cresciuto notevolmente.
Le app raccolgono dati come età, sesso, spostamenti dedotti dal Gps o abitudini nell’uso del browser, che poi vengono venduti a terze parti che li usano per messaggi commerciali mirati, indagini di mercato o ricerche.
In particolare, ad affermarlo questa volta sono una serie di esperti al Washington Post dopo il caso del vescovo americano Jeffrey Burrill, costretto a dimettersi dopo che un giornale ha scoperto, sulla base dei dati teoricamente anonimi di una app, la frequentazione di alcuni bar gay.
“E’ la prima volta, che io sappia, che un’entità giornalistica traccia una specifica persona e usa le informazioni raccolte come arma”, afferma Bennett Cyphers, della Electronic Frontier Foundation, attiva sui diritti digitali. “Questo è esattamente il tipo di minaccia alla privacy che abbiamo descritto per anni”:
In teoria i dati più sensibili, come il nome, vengono cancellati, ma una ricerca già nel 2013 ha dimostrato che basta incrociarne quattro di quelli che invece vengono trasmessi, ad esempio età, sesso, codice di avviamento postale della residenza, per poter identificare univocamente il 95% degli utenti.
“I consumatori non hanno molti strumenti per difendersi”, afferma Serge Egelman dell’International Computer Science Institute. “Una volta che i dati lasciano il dispositivo non c’è modo di sapere che cosa succederà, chi li riceverà. Non c’è nessuna consapevolezza di come verranno usati”.