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Guerra alle pubblicità invasive online, arriva la Coalition for Better Ads

Dal 15 febbraio Google Chrome bloccherà automaticamente le pubblicità dei siti che non rispettano gli standard della Coalition for Better Ads, (testualmente: “Coalizione per annunci migliori”).

Si tratta di un’iniziativa su base volontaria che raggruppa una serie di aziende (tra i propri membri, Google, Facebook, News Corp. The Washington Post, Unilever, Procter & Gamble, ANA, IAB e altri ancora). con l’obiettivo di trovare uno standard per la pubblicità online. Infatti il web è sempre più sommerso da pubblicità; queste pubblicità possono essere leggere e evitabili o, come spesso accade, fastidiose ed invadenti.

L’accordo, si propone di definire nuovi standard qualitativi per gli annunci online. A breve, la Coalition dovrebbe diffondere il Better Ads Experience Program, una sorta di certificazione di qualità per gli editori che rispettano gli standard.

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Lo scopo è quello di creare un ecosistema sostenibile e affidabile per la pubblicità online, con il contributo delle varie parti in causa (editori, pubblicitari, ecc.). Quest’anno, secondo una ricerca di eMarketer, 69,8 milioni di americani utilizzeranno un ad blocker, in crescita del 34,4% rispetto all’anno scorso. Nel 2017 invece, il dato crescerà del 24%, a 86,6 milioni di persone.
Devono essere stati questi numeri a spaventare i principali operatori dell’industria digitale, portandoli a costituire la Coalition.

Utilizzando la tecnologia di IAB Tech Lab, le campagne pubblicitarie online saranno valutate su più livelli, dalla creatività ai tempi di caricamento, e il consorzio definirà così degli standard basati sui dati raccolti dal sistema di punteggio, dai riscontri dei consumatori e dai suggerimenti dei marketer. Solo le inserzioni che superano l’esame saranno mostrate sui siti delle compagnie partecipanti.
Gli standard sono in fase di definizione sia per desktop che per mobile. Le distinzioni saranno anche su base geografica con differenze tra Europa e Nord America.
Saranno bloccati, ad esempio, quei fastidiosi pop up che coprono il testo mentre leggi, oppure gli altrettanto fastidiosi ‘sticky ads’, cioè i grandi riquadri pubblicitari che si aprono nella parte bassa dello schermo e che impediscono di fare lo scrolling della pagina (molto diffusi anche nei siti dei giornali), ecc.
Su mobile invece ci si concentrerà sui pop-up, pubblicità con densità superiore al 30% della pagina o a tutto schermo, animazioni e flash, video, countdown.

Randall Rothenberg, foto da www.iab.com

«È fondamentale che l’industria crei degli standard per assicurare che i consumatori ricevano una sicura, veloce e certa erogazione dei siti e dei servizi che amano», ha dichiarato, in un comunicato, il Ceo di IAB, Randall Rothenberg.
Questa tipologia di framework sarà integrato nelle prossime versioni del browser Chrome, sottolineando l’impegno di Google alle pubblicità invasive. Infatti una soluzione simile è già entrata in vigore con la rimozione delle app dal Play Store che non rispettano le nuove linee guida.

Della informazione digitale e la sua pesante dipendenza, in termini di ricavi, da pubblicità e social si è appena occupato un rapporto pubblicato dal Reuters Institute for the Study of Journalism dell’università di Oxford, dal titolo “The Global Expansion of Digital-Born News Media”. Nella ricerca si afferma che: «La dipendenza dalla pubblicità digitale come principale fonte di ricavi e dalle piattaforme, soprattutto Facebook, rappresenta gravi rischi per la sopravvivenza di questi media. Quello della pubblicità display digitale è infatti un mercato sempre più difficile a causa del passaggio al mobile, della crescita del programmatic advertising, della concorrenza delle grandi piattaforme e della diffusione degli ad-blocker».

«Il modello dei contenuti a pagamento – continua lo studio del Reuters Institute – è poco diffuso tra i media nativi digitali. Questi media sono ancora in fase di investimenti e non sono capaci di generare consistenti profitti».
Con il risultato, conclude in maniera apodittica l’analisi, che «l’informazione digitale è una bolla di contenuti destinata a scoppiare se non si troveranno modelli di business più sostenibili e diversificati».

 

uspi

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