Lo shadow ban, letteralmente divieto ombra, consiste nel far sparire un contenuto o un account dalle piattaforme online. Si tratta di una sanzione silente, nel senso che chi la subisce non lo viene a sapere. Di fatto, infatti, la risorsa non viene eliminata dal web, ma perde di visibilità.
Nel Digital service Act (DSA) si definisce come una “retrocessione nel posizionamento o nei sistemi di raccomandazione, oppure nella restrizione dell’accessibilità da parte di uno o più destinatari del servizio o nell’esclusione dell’utente da una comunità online senza che quest’ultimo ne sia consapevole”.
L’introduzione dello shadow banning ha lo scopo di moderare i contenuti che girano online e tutelare gli utenti.
A differenza del semplice ban, che elimina del tutto l’account e/o il contenuto, lo shadow banning non consente la fruizione della risorsa, deindicizzandola.
La pratica si è presto rivelata un’arma a doppio taglio, visto che c’è chi abusa di questo strumento per danneggiare gli altri utenti.
Chiaramente, è una prassi che causa un danno non indifferente ai giornali online, impedendo loro di monetizzare, ma soprattutto di prendere provvedimenti all’istante, non essendo a conoscenza delle restrizioni.
Il Digital Service Act interviene a tal proposito proprio per mettere fine ad abusi di questo genere. Ricordiamo che il Regolamento europeo sui servizi digitali sarà interamente applicabile a partire dal 17 febbraio 2024.
In particolare, l’articolo 17 del DSA specifica che per imporre una restrizione è necessario motivare la richiesta in maniera chiara e specifica. Ciò vuol dire che per bannare un contenuto e/o un account bisognerà fornire delle spiegazioni che potranno essere contestate dai destinatari della restrizione.
In sintesi, si potrà procedere con il ban vero e proprio, ma ricorrere allo shadow banning, invece significherà violare il DSA.
Infatti, applicare restrizioni silenti verrà considerato illegale perché non rispetta gli obblighi di trasparenza imposti dal regolamento.
Articolo di F. M.
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