In un mondo che si sta riorganizzando anche (e soprattutto) dal punto di vista lavorativo, cambiano le abitudini, i modelli e i luoghi dei lavoratori di tutto il globo.
Questa pandemia sta anche insegnando tanto a vari settori che si sono ritrovati a dover modificare drasticamente le modalità lavorative dei propri addetti e questo vale anche per il comparto dell’informazione e dell’editoria.
Anche i giornalisti e gli stessi editori hanno preso maggiore dimestichezza con i nuovi sistemi informatici che permettono l’interconnessione ovunque ci si trovi e questo ha effettivamente permesso a tutto il settore di restare in piedi e di proseguire il loro informativo durante il periodo di chiusura degli scorsi mesi.
“I giornalisti che vogliono lavorare e che amano il loro lavoro quando si trovano a operare in un ambiente tradizionale come la loro casa producono di più. E producono in quantità e in qualità che sorprende loro stessi. Non so perché questo avvenga, quali dinamiche vengano messe in moto, ma è così. Può funzionare anche al contrario: persone che si sentono disaffezionate, slegate dal loro lavoro, lo smart working le fa scomparire”, afferma Maurizio Molinari, direttore di Repubblica, durante un convegno della Fondazione Murialdi sul lavoro dalle proprie abitazioni.
Secondo Molinari “lo smart working fa chiarezza, consente di migliorare e ottimizzare le risorse che tu hai. Quelle che funzionano meglio funzionano di più, quelle che non funzionano diventa chiaro che per qualche motivo hanno dei problemi che noi dobbiamo affrontare”.
Aggiunge che quando il segretario Cgil, Maurizio Landini, manifesta la necessità di avere dei contratti sullo smart working vada preso molto sul serio: “La possibilità di normare questa novità ha a che vedere con la rivoluzionaria trasformazione della professione giornalistica, da lavoro tradizionale a lavoro dove le tecnologie sono protagoniste. Affrontare la sfida dello smart può essere una maniera per iniziare a normare la rivoluzione digitale”.