«Solo spegnendo il rumore del mondo e le nostre stesse chiacchiere – ha detto il Papa – è possibile l’ascolto, che rimane la condizione prima di ogni comunicazione».
Dopo l’Udienza riservata agli associati USPI del 16 dicembre scorso e il Messaggio per la Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali 2018 del gennaio di quest’anno, Papa Francesco è tornato sui temi, a lui cari, dell’informazione, della comunicazione e di come queste debbano essere sempre a servizio dei “poveri, gli ultimi, i sofferenti”.
E lo ha fatto con l’invito rivolto il primo maggio ai dirigenti e al personale di “Avvenire”, ricevuti in udienza nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano per la ricorrenza dei cinquant’anni del quotidiano, organo ufficiale della CEI (Conferenza Episcopale Italiana).
Il Papa ha preso ad esempio San Giuseppe, per evidenziare le sue doti di ascolto, di essere custode discreto e premuroso, che sa farsi carico delle persone e delle situazioni che la vita ha affidato alla sua responsabilità. Giuseppe, ha ricordato Francesco: «E’ l’educatore che – senza pretendere nulla per sé – diventa padre grazie al suo esserci, alla sua capacità di accompagnare, di far crescere la vita e trasmettere un lavoro».
« Proprio al lavoro, infatti, – ha affermato Francesco, riferendosi alla festività del 1° maggio – è strettamente legata la dignità della persona: non al denaro, né alla visibilità o al potere, ma al lavoro. Un lavoro che dia modo a ciascuno, qualunque sia il suo ruolo, di generare quella imprenditorialità intesa come “actus personae” (che potremmo sommariamente definire: “un’azione che non può essere scorporata dalla realtà della persona tutta intera” – ndr)), dove la persona e la sua famiglia restano più importanti dell’efficienza fine a sé stessa».
Oggi «la velocità dell’informazione supera la nostra capacità di riflessione e di giudizio e non permette un’espressione di sé misurata e corretta… – ha sottolineato il Papa – Il falegname di Nazareth ci richiama all’urgenza di ritrovare un senso di sana lentezza, di calma e pazienza. Con il suo silenzio ci ricorda che tutto ha inizio dall’ascolto, dal trascendere sé stessi per aprirsi alla parola e alla storia dell’altro».
Francesco ha chiuso, infine, il suo discorso con una esortazione ai giornalisti presenti: «Non abbiate paura di essere coinvolti. Le parole – quelle vere – pesano: le sostiene solo chi le incarna nella vita. La testimonianza, del resto, concorre alla vostra stessa affidabilità. Una testimonianza appassionata e gioiosa. È l’augurio conclusivo che vi rivolgo, facendo mie ancora una volta parole del Beato Paolo VI: “Occorre l’amore alla causa: se non si ama questa causa non combineremo che poco, ci stancheremo subito, ne vedremo le difficoltà, ne vedremo anche direi gli inconvenienti, le polemiche, i debiti… Dobbiamo avere un grande amore alla causa, dire che crediamo in quel che stiamo facendo e vogliamo fare”».
Riportiamo, per intero, il discorso del Papa:
«Cari amici di Avvenire,
in voi saluto un laicato che opera in un ambito rilevante e impegnativo come quello della comunicazione…
Sono contento di condividere questo momento con voi e di farlo nella giornata dedicata a San Giuseppe lavoratore. È facile affezionarsi alla figura di San Giuseppe e affidarsi alla sua intercessione. Ma per diventare davvero suoi amici occorre ricalcarne le orme, che rivelano un riflesso dello stile di Dio.
Giuseppe è l’uomo del silenzio. A prima vista, potrebbe perfino sembrare l’antitesi del comunicatore. In realtà, solo spegnendo il rumore del mondo e le nostre stesse chiacchiere è possibile l’ascolto, che rimane la condizione prima di ogni comunicazione. Il silenzio di Giuseppe è abitato dalla voce di Dio e genera quell’obbedienza della fede che porta a impostare l’esistenza lasciandosi guidare dalla sua volontà.
Non a caso, Giuseppe è l’uomo che sa destarsi e alzarsi nella notte, senza scoraggiarsi sotto il peso delle difficoltà. Sa camminare al buio di certi momenti in cui non comprende fino in fondo, forte di una chiamata che lo pone davanti al mistero, dal quale accetta di lasciarsi coinvolgere e al quale si consegna senza riserve.
Giuseppe è, quindi, l’uomo giusto, capace di affidarsi al sogno di Dio portandone avanti le promesse. È il custode discreto e premuroso, che sa farsi carico delle persone e delle situazioni che la vita ha affidato alla sua responsabilità. È l’educatore che – senza pretendere nulla per sé – diventa padre grazie al suo esserci, alla sua capacità di accompagnare, di far crescere la vita e trasmettere un lavoro.
Sappiamo quanto quest’ultima dimensione, a cui è legata la festa di oggi, sia importante. Proprio al lavoro, infatti, è strettamente legata la dignità della persona: non al denaro, né alla visibilità o al potere, ma al lavoro. Un lavoro che dia modo a ciascuno, qualunque sia il suo ruolo, di generare quella imprenditorialità intesa come «actus personae» (cfr Enc. Caritas in veritate, 41), dove la persona e la sua famiglia restano più importanti dell’efficienza fine a sé stessa.
A ben vedere, dalla falegnameria di Nazareth alla redazione di Avvenire, il passo non è poi così lungo!
Certamente, nella vostra “cassetta degli attrezzi” oggi ci sono strumenti tecnologici che hanno modificato profondamente la professione, e anche il modo stesso di sentire e pensare, di vivere e comunicare, di interpretarsi e relazionarsi.
La cultura digitale vi ha chiesto una riorganizzazione del lavoro, insieme con una disponibilità ancora maggiore a collaborare tra voi e ad armonizzarvi con le altre testate che fanno capo alla Conferenza Episcopale Italiana: l’Agenzia Sir, Tv2000 e il Circuito radiofonico InBlu. Analogamente a quanto sta avvenendo nel settore comunicazione della Santa Sede, la convergenza e l’interattività consentite dalle piattaforme digitali devono favorire sinergie, integrazione e gestione unitaria. Questa trasformazione richiede percorsi formativi e aggiornamento, nella consapevolezza che l’attaccamento al passato potrebbe rivelarsi una tentazione perniciosa. Autentici servitori della tradizione sono coloro che, nel farne memoria, sanno discernere i segni dei tempi (cfr Gaudium et spes, 11) e aprire nuovi tratti di cammino.
Tutto questo, probabilmente, fa già parte del vostro impegno quotidiano all’interno di uno sviluppo tecnologico che ridisegna a livello globale la presenza dei media, il possesso dell’informazione e della conoscenza. In questo scenario, la Chiesa sente di non poter far mancare la propria voce, per essere fedele alla missione che la chiama ad annunciare a tutti il Vangelo della misericordia. I media ci offrono potenzialità enormi per contribuire, con il nostro servizio pastorale, alla cultura dell’incontro.
Per mettere a fuoco tale missione, entriamo un momento insieme nella bottega del falegname; torniamo alla scuola di San Giuseppe, dove la comunicazione è ricondotta a verità, bellezza e bene comune.
Come ho avuto occasione di osservare, oggi «la velocità dell’informazione supera la nostra capacità di riflessione e di giudizio e non permette un’espressione di sé misurata e corretta» (Messaggio per la 48ª Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 1 giugno 2014). Anche come Chiesa siamo esposti all’impatto e all’influenza di una cultura della fretta e della superficialità: più che l’esperienza, conta ciò che è immediato, a portata di mano e può essere subito consumato; più che il confronto e l’approfondimento, si rischia di esporsi alla pastorale dell’applauso, a un livellamento del pensiero, a un disorientamento diffuso di opinioni che non si incontrano.
Il falegname di Nazareth ci richiama all’urgenza di ritrovare un senso di sana lentezza, di calma e pazienza. Con il suo silenzio ci ricorda che tutto ha inizio dall’ascolto, dal trascendere sé stessi per aprirsi alla parola e alla storia dell’altro.
Per noi il silenzio implica due cose. Da una parte, non smarrire le radici culturali, non lasciare che si deteriorino. La via per averne cura è quella di ritrovarci sempre nuovamente nel Signore Gesù, fino a fare nostri i suoi sentimenti di umiltà e tenerezza, di gratuità e compassione. Dall’altra parte, una Chiesa che vive della contemplazione del volto di Cristo non fatica a riconoscerlo nel volto dell’uomo. E da questo volto sa lasciarsi interpellare, superando miopie, deformazioni e discriminazioni.
Il dialogo vince il sospetto e sconfigge la paura. Il dialogo mette in comune, stabilisce relazioni, sviluppa una cultura della reciprocità. La Chiesa, mentre si pone come artefice di dialogo, dal dialogo viene purificata e aiutata nella stessa comprensione della fede.
A vostra volta, cari amici di Avvenire, custodite l’eredità dei padri. Non stancatevi di cercare con umiltà la verità, a partire dalla frequentazione abituale della Buona Notizia del Vangelo. Sia questa la linea editoriale, a cui legare la vostra integrità: la professione vi reclama tali, tanto alta è la sua dignità. Avrete, allora, luce per il discernimento e parole vere per cogliere la realtà e chiamarla per nome, evitando di ridurla a una sua caricatura.
Lasciatevi interrogare da quello che accade. Ascoltate, approfondite, confrontatevi. State lontani dai vicoli ciechi in cui si dibatte chi presume di aver già capito tutto. Contribuite a superare le contrapposizioni sterili e dannose. Con la testimonianza del vostro lavoro fatevi compagni di strada di chiunque si spende per la giustizia e la pace.
Giuseppe, uomo del silenzio e dell’ascolto, è anche l’uomo che nella notte non perde la capacità di sognare, di fidarsi e di affidarsi. Il sogno di Giuseppe è visione, coraggio, obbedienza che muove il cuore e le gambe. Questo Santo è icona del nostro popolo santo, che in Dio riconosce il riferimento che abbraccia con senso unitario tutta la vita.
Tale fede coinvolge nell’azione e suscita buone abitudini. È sguardo che accompagna processi, trasforma i problemi in opportunità, migliora e costruisce la città dell’uomo. Vi auguro di saper affinare e difendere sempre questo sguardo; di superare la tentazione di non vedere, di allontanare o escludere. E vi incoraggio a non discriminare; a non considerare nessuno come eccedente; a non accontentarvi di quello che vedono tutti.
Nessuno detti la vostra agenda, tranne i poveri, gli ultimi, i sofferenti. Non ingrossate le fila di quanti corrono a raccontare quella parte di realtà che è già illuminata dai riflettori del mondo. Partite dalle periferie, consapevoli che non sono la fine, ma l’inizio della città.
Come avvertiva Paolo VI, i giornali cattolici non devono «dare delle cose che fanno impressione o che fanno clientela. Noi dobbiamo fare del bene a quelli che ascoltano, dobbiamo educarli a pensare, a giudicare» (Discorso agli operatori delle comunicazioni sociali, 27 novembre 1971). Il comunicatore cattolico rifugge le rigidità che soffocano o imprigionano. Non mette «in gabbia lo Spirito Santo», ma cerca di «lasciarlo volare, di lasciarlo respirare nell’animo» (ibid.). Fa sì che mai la realtà ceda il posto all’apparenza, la bellezza alla volgarità, l’amicizia sociale alla conflittualità. Coltiva e rafforza ogni germoglio di vita e di bene.
Le difficoltà non vi blocchino: basta tornare un momento al clima che 50 anni fa avvolse la gestazione del progetto di Avvenire per ricordare quante perplessità e resistenze, quante diffidenze e contrarietà cercarono di frenare la volontà di Paolo VI circa la nascita di un quotidiano cattolico a carattere nazionale.
Giuseppe, infine, è il Santo custode, l’uomo della concretezza e della prossimità. In fondo, proprio in questa disponibilità a prendersi cura dell’altro sta il segreto della sua paternità, ciò che lo ha reso davvero padre. L’esistenza dello sposo della Vergine è richiamo e sostegno a una Chiesa che non accetta la riduzione della fede alla sfera privata e intima, né si rassegna a un relativismo morale che disimpegna e disorienta.
Possiate anche voi esprimere una Chiesa che non guarda la realtà né da fuori né da sopra, ma si cala dentro, si mescola, la abita e – in forza del servizio che offre – suscita e dilata la speranza di tutti.
Vi incoraggio a custodire lo spessore del presente; a rifuggire l’informazione di facile consumo, che non impegna; a ricostruire i contesti e spiegare le cause; ad avvicinare sempre le persone con grande rispetto; a scommettere sui legami che costituiscono e rafforzano la comunità.
Nulla come la misericordia crea vicinanza, suscita atteggiamenti di prossimità, favorisce l’incontro e promuove una coscienza solidale. Farsene portatori è la strada per contribuire al rinnovamento della società nel segno del bene comune, della dignità di ciascuno e della piena cittadinanza.
C’è bisogno di dar voce ai valori incarnati nella memoria collettiva e alle riserve culturali e spirituali del popolo; di contribuire a portare nel mondo sociale, politico ed economico la sensibilità e gli orientamenti della Dottrina sociale della Chiesa, essendone, noi per primi, fedeli interpreti e testimoni.
Non abbiate paura di essere coinvolti. Le parole – quelle vere – pesano: le sostiene solo chi le incarna nella vita. La testimonianza, del resto, concorre alla vostra stessa affidabilità. Una testimonianza appassionata e gioiosa. È l’augurio conclusivo che vi rivolgo, facendo mie ancora una volta parole del Beato Paolo VI: «Occorre l’amore alla causa: se non si ama questa causa non combineremo che poco, ci stancheremo subito, ne vedremo le difficoltà, ne vedremo anche direi gli inconvenienti, le polemiche, i debiti […] Dobbiamo avere un grande amore alla causa, dire che crediamo in quel che stiamo facendo e vogliamo fare» (ibid.).
Di questo amore, vi chiedo, sia parte anche la vostra preghiera per me. Grazie!».
Foto in alto: Papa Francesco (Foto da www.vaticannews.va)