Risponde di accesso abusivo al sistema informatico il coniuge che entra nel profilo FB della moglie essendo a conoscenza delle password.
Sentenza della Suprema Corte n. 2905 del 22 gennaio 2019.
E’ stata confermata dalla Corte di Cassazione la condanna penale per accesso abusivo al sistema informatico, impartita dalla Corte di Appello di Palermo con sentenza del 13 settembre 2017 (di conferma di quella emessa dal Giudice monocratico del Tribunale della stessa città) per il reato di cui all’articolo 615-ter del Codice Penale, ad un uomo che era entrato nel profilo Facebook della moglie grazie al nome utente e alla password utilizzati dalla donna, a lui noti da prima del lacerarsi della loro relazione.
Il caso
L’imputato – ricorda l’avvocato Eleonora Pergolari, che ha ripreso la vicenda in un articolo su www.edotto.com – accedendo con le credenziali della coniuge, aveva fotografato una chat che la stessa aveva intrattenuto con un altro uomo (da lui poi prodotta nel giudizio di separazione giudiziale) ed aveva cambiato la password, così da impedire alla persona offesa di accedere al social network.
La sentenza
I giudici di Cassazione, con Sentenza n. 2905 del 22 gennaio 2019, nel confermare la penale responsabilità dell’uomo, si sono soffermati sul tema, posto dal ricorrente, della eventuale valenza, a suo discarico, della avvenuta comunicazione delle credenziali da parte della moglie, prima dell’incrinarsi del loro rapporto.
La Suprema corte, sul punto, ha richiamato quanto già affermato in sede di legittimità in un caso del tutto analogo (Sentenza n. 52572 del 6 giugno 2017): il fatto che il ricorrente fosse a conoscenza delle chiavi di accesso della donna al sistema informatico – quand’anche fosse stata quest’ultima a renderle note e a fornire, così, in passato, un’implicita autorizzazione all’accesso – non escludeva, comunque, il carattere abusivo degli accessi.
Mediante questi ultimi, infatti, era stato ottenuto un risultato certamente in contrasto con la volontà della persona offesa nonché esorbitante rispetto a qualsiasi ambito autorizzatorio del titolare, ovvero, nella specie, la conoscenza di conversazioni riservate e l’estromissione dall’account.
Le conclusioni
Nel ritenere inammissibile il ricorso, i giudici di Cassazione hanno confermato la condanna penale impartita dalla Corte di Appello e hanno condannato il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 2.000 a favore della Cassa delle ammende, nonché al rimborso delle spese sostenute dalla parte civile, liquidati in complessivi 2932,83 euro oltre agli accessori di legge.
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