La Corte Costituzionale conferma che la minaccia dell’obbligatoria applicazione del carcere per i giornalisti può produrre l’effetto di dissuadere i giornalisti dall’esercizio della professione.
Ma con una specifica: non è di per sé incompatibile con la Costituzione che il giudice applichi la pena del carcere a chi, ad esempio, si sia reso responsabile di “campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, Internet o i social media, caratterizzate dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima, e compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della – oggettiva e dimostrabile – falsità degli addebiti stessi”.
In ogni caso la Consulta, nella Sentenza n. 150, chiarisce che le norme vigenti che obbligano il giudice a punire con il carcere il reato di diffamazione a mezzo della stampa sono incostituzionali perché contrastano con la libertà di manifestazione del pensiero, riconosciuta tanto dalla Costituzione italiana quanto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Quindi, la Corte ha definitivamente dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 13 della legge sulla stampa (n. 47 del 1948), che prevedeva la necessaria applicazione della reclusione da uno a sei anni per il reato di diffamazione commessa a mezzo della stampa e consistente nell’attribuzione di un fatto determinato.
La sentenza numero 150
Nel testo, la Corte Costituzionale chiarisce che “chi ponga in essere simili condotte – eserciti o meno la professione giornalistica – certo non svolge la funzione di ‘cane da guardia’ della democrazia, che si attua paradigmaticamente tramite la ricerca e la pubblicazione di verità ‘scomode’; ma, all’opposto, crea un pericolo per la democrazia”.
Quindi, “aggressioni illegittime” al diritto della dignità della persona, compiute attraverso la stampa, la radio, la televisione, le testate giornalistiche online e i siti internet in generale, i social media, “possono incidere grandemente sulla vita privata, familiare, sociale, professionale, politica delle vittime”.
28La Corte ha poi osservato che “se circoscritta a casi come quelli appena ipotizzati, la previsione astratta e la concreta applicazione di sanzioni detentive non possono, ragionevolmente, produrre effetti di indebita intimidazione nei confronti dell’esercizio della professione giornalistica e della sua essenziale funzione per la società democratica. Al di fuori di quei casi eccezionali, del resto assai lontani dall’ethos della professione giornalistica, la prospettiva del carcere resterà esclusa per il giornalista, così come per chiunque altro che abbia manifestato attraverso la stampa o altri mezzi di pubblicità la propria opinione”.
Permane la necessità, già evidenziata dalla Corte con l’ordinanza n. 132 del 2020, di una riforma della disciplina vigente, allo scopo di “individuare complessive strategie sanzionatorie in grado, da un lato, di evitare ogni indebita intimidazione dell’attività giornalistica, e, dall’altro, di assicurare un’adeguata tutela della reputazione individuale contro illegittime aggressioni poste in essere nell’esercizio di tale attività”.