La solitudine del XXI secolo

di Francesco Saverio Vetere

Il rinnovo delle cariche sociali dell’Unione Stampa Periodica Italiana rappresenta sempre un momento di confronto tra tutti i rappresentanti dei settori che la compongono.

La nostra Unione è, infatti, profondamente plurale, caratteristica fondamentale per un’associazione che si occupa di un settore così ampio e variegato come quello dell’informazione e dell’editoria, in particolare. In realtà questa è stata una scelta operata dai nostri predecessori verso la fine degli anni ’60, poiché in principio l’USPI era nata con la finalità di tutelare i giornali culturali.

La lungimiranza dei nostri predecessori ha fatto sì che nascesse una realtà che solo di nome limitava la sua rappresentanza al mondo dei periodici, allargando comunque l’ambito di rappresentanza rispetto alla nicchia dell’editoria culturale. Su questo aspetto permettetemi di insistere perché è poco conosciuto.

Parlare di stampa periodica, secondo quello che è l’evidente significato dato a questa espressione dall’art. 21 della Costituzione, significa parlare di stampa non libraria, quindi occuparsi di giornali, ossia i prodotti editoriali che escono secondo il principio della periodicità a partire da quella quotidiana per finire con quella annuale.
Per cui, l’USPI ha sempre rappresentato la stampa non libraria, annoverando tra i suoi associati molti quotidiani anche nel mondo offline della stampa esclusivamente cartacea.

Che cosa ha prodotto la lungimiranza dei nostri predecessori? Ha prodotto un’associazione che aveva sì finalità di tutela di un settore – ma non così marcatamente lobbystiche come le istanze presentate da associazioni che tutelano particolari interessi – con la necessità, allo stesso tempo, di una visione generale e di un continuo lavoro di mediazione all’interno di USPI tra componenti che a volte ponevano richieste profondamente diverse, per non dire opposte.

Da quegli anni in poi, questo ruolo di mediazione è stato svolto dagli organi sociali di USPI e, in particolare nei decenni successivi, dalla figura che si è andata affermando in questo ruolo di mediazione che è quella del Segretario Generale.

Tuttavia, il punto di partenza obbligatorio per chiunque voglia impegnarsi in USPI è quello di rinunciare alla propria visione particolaristica per trovare una comunione di interessi che consenta di dar forza alle istanze di settore, che si tratti di tematiche afferenti al mondo dell’editoria assistita, a quello della stampa pura di informazione, a quello della stampa tecnico-professionale, a quello della stampa no profit e onlus, tanto per citare solo alcuni dei comparti che compongono USPI.

Questa capacità richiede, in primo luogo, una vera conoscenza del settore dell’informazione, dei suoi sviluppi storici, della natura dei giornali, della loro organizzazione industriale, dell’equilibrio dei rapporti tra potere pubblico e libertà di stampa e, da vent’anni a questa parte, dello sviluppo tecnologico che modifica e, anzi, stravolge completamente tutto il panorama dell’informazione.

L’aspetto più conosciuto del settore dell’informazione, in questo periodo, è quello del drastico calo delle vendite dei quotidiani generalisti e dell’altrettanto drastico calo dei periodici di informazione territoriale e di nicchia.
Questo declino viene spesso collegato allo sviluppo di internet, in particolare dopo la nascita degli smartphone, seconda grande rivoluzione tecnologica che riguarda la fruizione della rete. Questo collegamento tra lo sviluppo di internet e il declino dei giornali è corretto anche se piuttosto superficiale nella sua formulazione. Il vero problema, ai fini della comprensione delle cause (nella quale consiste la Sapienza, come insegnava Aristotele), sta nel rapporto tra il sistema normativo in base al quale si identifica un giornale e lo sviluppo tecnologico.

Scrivo nel 2022 ed è giusto che resti come testimonianza della situazione italiana il fatto che la legge prevede, ancora oggi, l’obbligo di registrazione di un giornale in tribunale, un Ordine dei Giornalisti (unico Paese in Europa) e varie altre amenità di contorno che tendono a rinchiudere il sistema dell’informazione in un circuito chiuso determinato da leggi che non hanno più il minimo senso.

Del resto, siamo ancora governati da una Costituzione che non tratta neanche dell’informazione radiofonica (sia detto con il più alto rispetto per la nostra Costituzione che ha avuto e continua ad avere una funzione fondamentale).

Per farmi capire ancora meglio, dirò che la legge fascista del 1939 sul deposito legale in Prefettura al fine del controllo dei giornali è stata abrogata e sostituita soltanto nel 2004, quindi non ho idea di quali siano i tempi necessari per una presa d’atto del mondo che cambia e della necessità di regolamentarlo.

Si dirà che è un problema di classe dirigente, e probabilmente è vero. Ma non è questo il punto. Mi interessa poco, anche perché ogni volta che la classe dirigente che si alterna alla guida di questo Paese ha proposto delle modifiche anche costituzionali è riuscita a fare perfino peggio delle norme che si andavano ad abrogare. Ben si comprende la diffidenza dei cittadini italiani chiamati a esprimersi in sede di referendum o di elezioni politiche.

Dunque, di cosa dovevano prendere atto gli organi sociali di USPI nel programmare il futuro?
1. Del fatto che la stampa di nicchia su internet si sta orientando verso un sistema extraeditoria, per esempio, uscendo dal comparto giornalistico in senso stretto da un punto di vista normativo;
2. Del fatto che nascono prodotti informativi generalisti sotto forma di blog, pagine social, che ottengono un enorme successo, talvolta, senza essere tenuti al rispetto delle norme che regolano la produzione di informazione;
3. Del fatto che queste nuove modalità di informazione non sono regolate sufficientemente da alcuna legge dello Stato;
4. Del fatto, quindi, che le nuove generazioni non hanno la minima idea di cosa sia o debba essere un giornale e, tra l’altro, si informano molto di più della nostra generazione.

Magari male, non lo so, ma sicuramente di più di noi, non dovendo sottostare ai cosiddetti mediatori informativi, figure ibride, mezzo sacerdote e mezzo sciamano, che determinavano l’orientamento dell’informazione.

La nostra cultura, stratificatasi nei secoli passati, ci ha reso dipendenti da queste figure sacerdotali che Kant definiva i “direttori spirituali”, la liberazione dai quali sanciva l’uscita dallo stato di minorità degli esseri umani. Evidentemente c’è ancora qualcuno che ama lo stato di minorità o lo stato di dipendenza da uno di quei pensatori sublimi che dovrebbe dirci cosa pensare o no (sindrome di Stoccolma dell’informazione) e, devo dire, che anche su internet cogliamo i primi segnali di una casta sacerdotale che viene definita “influencer”.

Ma, a parte questo, internet fornisce la possibilità di essere liberi. Non dipende dal mezzo se noi sappiamo o non sappiamo utilizzare la nostra libertà, dipende dall’uso che sappiamo farne. Ovviamente i soliti ben pensanti hanno subito iniziato a dire che internet porta disinformazione, fake news (e anche che il 5G ha portato il Covid). Lo sappiamo tutti che la disinformazione si è sempre accompagnata all’informazione, come naturale e ovvio rovescio della medaglia.

Tutto questo nella continuità coerente e persistente delle idiozie che ci continuano a somministrare nell’analisi del settore dell’informazione.

Qualche giorno fa ho avuto l’onore di essere ricevuto da Maria Elisabetta Alberti Casellati, Presidente del Senato, con la quale abbiamo anche ragionato sul comportamento di alcuni quotidiani generalisti.

Una delle mie riflessioni è stata questa: i quotidiani generalisti li leggiamo solo noi, istituzioni, classe dirigente e giornalisti impegnati sulla rassegna stampa sui canali all news. A tutto il resto del popolo italiano non importa assolutamente nulla di quello che dicono i quotidiani generalisti. E fare riferimento ai quotidiani, oggi, vuol dire restare in un circuito chiuso che non dialoga con la società.

Le stime di AGCOM sulla vendita dei quotidiani cartacei ci dicono che siamo arrivati a circa 1.000.000 di copie vendute al giorno, avendo toccato negli anni ’90 il massimo di 6.600.000 copie. Giusto per capire. Di che cosa stiamo parlando? Soprattutto, in futuro cosa accadrà? Si parla, con la consueta superficialità alla quale siamo abbonati come ai giornali di una volta, di quando uscirà l’ultimo numero di un giornale cartaceo. Non succederà mai, semplicemente perché ci saranno gli appassionati di antiquariato.

Ma questo rilievo non c’entra nulla con l’analisi di un settore. Quest’ultima deve riguardare il sistema economico che lo stesso può sostenere. Fino a vent’anni fa il sistema dei giornali cartacei sosteneva praticamente tutto il comparto, in particolare, per esempio, l’ente di previdenza INPGI che è, per l’appunto, fallito, ed è stato costretto a confluire in INPS.

Non ci sono mezze misure: è fallito tutto il sistema dell’editoria cartacea generalista quotidiana, perché da molti anni ormai esiste soltanto con svariate “solidarietà” concesse dallo storico sindacato residuale dei giornalisti che si appella FNSI, i cui vertici sono composti da un ristretto nucleo di dipendenti dei grandi quotidiani che affannandosi a salvaguardare l’esistente finiscono per distrarsi dai veri problemi delle migliaia e migliaia di giornalisti in difficoltà. Anche in questo caso ci sono delle eccezioni, per carità. Ma sono casi isolati che non fanno sistema, per l’appunto.

Dov’è l’informazione? L’informazione sta nei nuovi giornali online, piccoli, medi e grandi i quali per aver fatto la scelta di stare dentro al sistema normativo dell’editoria, stanno cominciando a generare un sistema nuovo frenato, rallentato, dall’incapacità di governi e parlamenti di assisterli, riconoscendo loro lo status di giornali con molto ritardo e molte norme approssimative.

Sta nelle nuove forme che prende l’informazione anche sui social. E genera un settore che non è normato, non è regolamentato e quindi non può essere assistito dall’autorità pubblica.

Di conseguenza, è completamente nelle mani degli OTT. Senza che nessuna abbia la possibilità di tutelarlo. Questa situazione è una delle più gravi che possa vivere uno Stato democratico, perché riguarda la formazione dell’opinione pubblica, completamente svincolata da ogni possibilità di intervento e di sostegno.

Questo perché? Perché secondo la mentalità che ancora affligge la nostra classe dirigente, il giornale è lo strumento elettivo dell’informazione ed è giornale solo se rispetta le leggi dell’editoria. Il fatto che il mondo stia andando da un’altra parte sembra non interessare nessuno.

Non sarebbe ora di uscire da questa logica? Non sarebbe ora di trovare un modo nuovo e attuale di regolamentare e proteggere la produzione di informazione nel nostro Paese? E, nel caso in cui la risposta fosse affermativa, come potremmo farlo?
Per esempio, uscendo dalla logica secondo la quale l’informazione la fanno solo i giornali e avendo riguardo per l’oggettiva attività di informazione indipendentemente dal soggetto che la fa. 

Trovare, quindi, le caratteristiche che connotano una produzione di informazione continua, organizzata, professionale, con qualunque mezzo e in qualunque forma venga attuata. È evidente la necessità di protezione di questo settore, perché mai come adesso l’equilibrio democratico del nostro Paese dipende da forze e orientamenti il più delle volte occulti, che agiscono nel nostro sistema informativo senza alcun obbligo di manifestarsi.

Abbiamo il compito storico di individuare categorie giuridiche che si adattino al nuovo mondo e sappiano condurlo al pieno sviluppo, rispettandone la libertà ma proteggendolo dai tentativi di impadronirsene e orientarlo a proprio piacimento.

Personalmente mi è molto piaciuta l’iniziativa della Commissione europea di generare due nuovi social pubblici europei, nel tentativo di creare un ecosistema garantito dai principi supremi dei nostri ordinamenti e dentro i quali non sentirsi ospiti di un privato, ma dentro la propria casa. Spero che presto possa nascere un motore di ricerca con le stesse caratteristiche per non consegnare internet nelle mani di aziende private. Si tratta di una nuova e più evoluta forma di sostegno pubblico, che possiamo definire realmente “strutturale”. Ma anche così abbiamo la necessità di identificare, regolamentare il settore, affinché decolli definitivamente, senza padroni.

Vogliamo stabilire che si tratta della definitiva entrata di USPI nel XXI secolo? Forse sì, anche a costo di sentirci molto soli, come del resto ci accade da quasi 70 anni.