Dalla Cassazione ancora un NO al carcere per il reato di diffamazione a mezzo stampa

Sentenza n. 38721 del 19 settembre 2019, emessa dalla quinta sezione penale della Corte di Cassazione.

Sulla legittimità o meno del carcere per i giornalisti è atteso il definitivo pronunciamento della Corte Costituzionale che dovrebbe arrivare entro la prossima primavera.

La Cassazione, intanto, ribadisce il suo fermo no al carcere per i giornalisti condannati – seppure con pena sospesa – per il reato di diffamazione a mezzo stampa.

Con la Sentenza n. 38721 del 19 settembre 2019 la V sezione penale della Corte di Cassazione ha definitivamente annullato la pena, condizionalmente sospesa, di tre mesi di reclusione, inflitta dalla Corte di Appello di Salerno a Fabio Buonofiglio, direttore del periodico calabrese “Altre Pagine”, per un articolo pubblicato il 13 agosto 2011 e ritenuto gravemente lesivo della reputazione dell’allora sostituto procuratore della Repubblica di Rossano.

La detenzione per questo reato – prevista sia dall’articolo 595 del Codice penale sia dall’articolo 13 della Legge n. 47 del 1948  sulla Stampa –, ha eccepito la Cassazione, è incompatibile con la libertà di espressione dei giornalisti garantita dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

La reclusione, ha ribadito la Corte, può essere giustificata solo in casi del tutto eccezionali, cioè quando siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, discorsi di odio o di istigazione alla violenza. Tranne che in tali casi, di fronte a condanne per diffamazione i giudici costituzionali hanno esortato i magistrati italiani a non infliggere più il carcere, ma eventualmente solo multe.

Corte Suprema di Cassazione – facciata posteriore, Roma, da wikipedia.org, autore Dietmar Rabich (licenza CC BY-SA 4.0)

La pronuncia della Suprema Corte richiama quanto già affermato nella sua precedente decisione della quinta Sezione penale n. 12203 del 13 marzo 2014.

In quell’occasione fu osservato che «l’irrogazione della pena detentiva in luogo di quella pecuniaria, pur a seguito del riconoscimento di attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti, non sembra rispondere alla ratio della previsione normativa che, nel prevedere l’alternatività delle due sanzioni, palesemente riserva quella più afflittiva alle ipotesi di diffamazione connotate da più spiccata gravità».

Per contrastare l’applicabilità della pena detentiva non fu neppure trascurato «l’orientamento della Corte EDU che, ai fini del rispetto dell’art. 10 della Convenzione relativo alla libertà di espressione, esige la ricorrenza di circostanze eccezionali per l’irrogazione, in caso di diffamazione a mezzo stampa, della più severa sanzione, sia pure condizionalmente sospesa, sul rilievo che, altrimenti, non sarebbe assicurato il ruolo di ‘cane da guardia’ dei giornalisti, il cui compito è di comunicare informazioni su questioni di interesse generale e conseguentemente di assicurare il diritto del pubblico di riceverle».

In un altro passaggio della decisione n. 12203 del 2014 fu sottolineato che «la libertà di espressione costituisce un valore garantito anche nell’ordinamento interno attraverso la tutela costituzionale del diritto/dovere d’informazione cui si correla quello all’informazione garantito dall’art. 21 della Costituzione, diritti i quali impongono, anche laddove siano valicati i limiti di quello di cronaca e/o di critica, di tener conto, nella valutazione della condotta del giornalista, della insostituibile funzione informativa esercitata dalla categoria di appartenenza, tra l’altro attualmente oggetto di gravi ed ingiustificati attacchi da parte anche di movimenti politici proprio al fine di limitare tale funzione».

In quella sentenza fu anche ricordato che, all’epoca, il legislatore ordinario italiano era «orientato al ridimensionamento del profilo punitivo del reato di diffamazione a mezzo stampa». Poi, come sappiamo, non se ne fece più nulla.

Sulla legittimità della normativa che prevede il carcere per i giornalisti nel caso di reato di diffamazione si esprimerà entro la prossima primavera la Corte Costituzionale.

Al momento, nonostante che la sua condanna al carcere  sia stata cancellata e che il reato di diffamazione sia caduto in prescrizione, il direttore Fabio Buonofiglio rischia comunque di essere condannato in un prossimo giudizio in sede civile a risarcire i danni in favore del PM calabrese che si era costituito parte lesa nel processo penale.