Bloccata nuovamente, alla riunione dell’Ecofin, l’adozione della minimum tax europea.
La norma imporrebbe un’aliquota al 15% per le multinazionali che operano sul territorio del Vecchio Continente. Ma non solo. La norma prevede anche un percorso giuridico-legale diverso, per la riallocazione dei profitti delle Big Tech.
Tutto fermo, al momento. Perché per l’approvazione finale è necessaria l’unanimità tra i Paesi membri.
I veti di Polonia e Ungheria
Questa volta il veto è stato posto dall’Ungheria, mentre le scorse volte era stata la Polonia a bloccare l’iter.
La contrarietà di Budapest è subentrata subito dopo che la Polonia aveva annunciato di togliere il suo veto. Una “storia infinita”, come l’ha definita il ministro delle Finanze francese, Bruno Le Maire.
Mihaly Varga, il ministro delle Finanze ungherese, ha spiegato che la situazione economica venutasi a creare con lo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina giustifica la necessità di prendere più tempo. Inoltre, sembrerebbe che nel Parlamento ungherese “aumentano le voci critiche sull’accordo”.
Lo Polonia avrebbe cambiato idea dopo l’approvazione da parte dell’Ue del suo PNRR e l’invio della prima tranche di fondi. Per quanto riguarda quello ungherese, invece, l’approvazione sembrerebbe essere lontana. Questo bloccherebbe ancora per molto l’iter per l’approvazione della minimum tax europea.
Procedere autonomamente
L’Italia, come anche altri Paesi Ue, potrebbe effettivamente lavorare sulla propria minimum tax, senza aspettare l’unanimità Ocse. L’urgenza è giustificata dal fatto che, rimanendo così le cose, le big tech potrebbero rimanere nelle giurisdizioni che hanno una corporate tax al di sotto dell’aliquota concordata, come l’Irlanda, il Lussemburgo e i Paesi Bassi.