Cassazione, lavorare fino a 70 anni non è un diritto ma una possibilità da concordare con l’azienda

Tale regola vale anche per i giornalisti, che versano i contributi e sottostanno alle regole dell’INPGI e non dell’INPS.

La Corte di cassazione, con la sentenza 20089/2018 depositata il 30 luglio 2018, si è pronunciata in merito alla possibilità di prolungare l’attività lavorativa dipendente fino a 70 anni. La Corte, peraltro, ha fatto ampio riferimento a quanto già chiarito dalle Sezioni unite con la sentenza 17589/2015.

Rimanere al lavoro fino a 70 anni, andando oltre i limiti previsti dalla normativa di settore come previsto dal decreto legge 201/2011 (convertito con modificazioni dalla L. 22 dicembre 2011, n. 214), ha sentenziato la Corte, non è un diritto soggettivo per il dipendente, ma una possibilità che deve essere concordata con l’azienda.
Tale regola vale anche per i giornalisti, che versano i contributi e sottostanno alle regole dell’INPGI e non dell’INPS.

ESTRATTO DELLA SENTENZA
Corte suprema di cassazione – Sez. Lavoro Civile
Sentenza N. 20089 – Anno 2018
Presidente: Bronzini Giuseppe
Relatore: Leone Margherita Maria
Data pubblicazione: 30/07/2018
La seguente SENTENZA sul ricorso 11429-2016 proposto da: (XXX), elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avvocato che lo rappresenta e difende – ricorrente
contro RCS MEDIAGROUP S.P.A. in persona del legale rappresentante pro tempore, – controrícorrente
avverso la sentenza n. 331/2016 della Corte d’Appello di Milano, depositata il 04/03/2016 r.g.n. 1331/2015;

Fatti di causa
La Corte di appello di Milano con la sentenza n. 331/2016 aveva respinto il reclamo avverso la sentenza con la quale il Tribunale della stessa sede aveva ritenuto legittima la risoluzione del rapporto di lavoro adottata da RCS MEDIAGROUP spa, nei confronti di (XXX), per raggiunti limiti di età.

La Corte territoriale, prendendo atto della decisione delle Sezioni unite n. 17589/2015, aveva ritenuto che la disciplina applicabile agli iscritti all’Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani (INPGI) fosse quella assicurata dalle misure adottate dall’istituto stesso ai sensi dell’art. 24, comma 24, del DL 201/2011, così come previsto per gli iscritti agli altri enti gestori di forme obbligatorie di previdenza ed assistenza privatizzati ai sensi del D.lgs n.509/94.

Aveva inoltre ritenuto che, con riguardo ai trattamenti pensionistici ed al proseguimento dell’attività lavorativa, sempre in adesione alla decisione delle Sezioni Unite, la disposizione dell’art. 24, comma 4, del DL 201/2011, non attribuisse al lavoratore il diritto potestativo a proseguire nel rapporto di lavoro sino al raggiungimento del 70° anno di età, in quanto la norma non crea alcun automatismo, ma rende possibile tale continuazione solo in caso di consensuale accordo tra le parti.
Il giudice del gravame aveva infine escluso il carattere discriminatorio del recesso adottato dalla società. Avverso tale decisione il (XXX) proponeva ricorso affidandolo a due motivi cui resisteva la società con controricorso e memoria successiva.

Ragioni della decisione
1) Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 24, 4° comma del D.L. n. 201/2011, per aver la Corte ritenuto la non applicabilità della disposizione all’INPGI, in quanto ente privatizzato gestore di forma obbligatoria di assistenza e previdenza;
2) con il secondo motivo è denunciata la violazione e falsa applicazione del predetto art. 24, comma 4, per aver la sentenza impugnata, statuito che la RG. n. 11429/2016 disposizione non attribuisse alcun diritto potestativo al lavoratore di continuare il rapporto di lavoro sino al 70° anno di età, ma solo condizioni di incentivo alla prosecuzione consensuale del rapporto. Rileva il ricorrente che l’interpretazione data dalla Corte territoriale all’art. 24, comma 4, ignora la parte della disposizione in cui è espressamente prevista la applicazione della medesima alle forme sostitutive dell’assicurazione Generale obbligatoria.

Peraltro l’INPGI, a dire dell’ (XXX) è ente diverso dalle altre Casse privatizzate in quanto non solo ha una gestione obbligatoria ma anche sostitutiva. Il secondo motivo di censura tende a contestare la interpretazione della disposizione con riguardo alla possibilità di prosecuzione del rapporto sino al 70° anno di età, esclusa dalla Corte territoriale in assenza di un accordo consensuale tra le parti.
Entrambi i motivi possono essere trattati congiuntamente perché attinenti alla interpretazione dell’art. 24, comma 4, e quindi a materia già affrontata dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 17589/2015.

Con riferimento alla prima censura è stato ritenuto che tra le “forme esclusive e sostitutive” dell’AGO, cui è riferita la disciplina del richiamato comma 4, non rientri alcuno degli enti privatizzati a seguito del d.lgs. n. 509, e ricompresi nella tabella ad esso allegata. Infatti, la circostanza che per indicare le disposizioni dirette ad attuare il contenimento della spesa pensionistica riservate agli iscritti dagli enti privatizzati gestori di forme obbligatorie di previdenza ed assistenza il legislatore abbia indicato una sede specifica (il comma 24), diversa da quella riservata alle misure concernenti coloro che sono iscritti all’AGO e alle forme esclusive e sostitutive della medesima (comma 4 e seguenti), è chiaro indice della volontà di adottare due diversi schemi di intervento. Di modo che deve escludersi che, nonostante l’ambiguità dell’espressione normativa, le disposizioni contenute nell’art. 24, comma 4, possano avere una estensione così ampia da abbracciare anche posizioni assicurative ricomprese nell’ambito del successivo comma 24.

Nulla ovviamente avrebbe impedito al legislatore di procedere ad una determinazione autoritativa anche per gli iscritti agli enti privatizzati, ma non è questo il caso, atteso che, in considerazione delle rilevate diversità dei sistemi, sarebbe stata necessaria una espressa disposizione derogatoria.

Le Sezioni Unite hanno quindi chiarito, anche valutando le differenti opzioni interpretative della disposizione, (ivi comprese quelle proposte dall’attuale ricorrente), le ragioni della non applicabilità all’Inpgi della disciplina del richiamato art. 24,c.4 del decreto legge n. 201/2011.

Anche con riguardo alla seconda censura Le Sezioni Unite con la richiamata sentenza hanno stabilito che “il legislatore con il richiamo ai ‘limiti ordinamentali’ intende precisare che la ‘incentivazione’ al prolungamento del rapporto di lavoro non deve collidere con le disposizioni che, sul piano legislativo regolano gli specifici comparti (individuati sulla base della disciplina del rapporto tanto sul piano della regolazione sostanziale che di quella previdenziale) di appartenenza del lavoratore e che potrebbero essere ostativi al nuovo regime previsto dalla disposizione in esame”.

Di fronte alla genericità della formulazione della disposizione legislativa, quella che viene qui sostenuta, rappresenta l’interpretazione più ragionevole della norma, coerente con la soluzione sopra adottata, secondo cui i regimi previdenziali toccati dall’art. 24, c. 4, sono solo quelli regolati per legge.
Tale conclusione trova in qualche modo conferma nella disposizione del decreto-legge 31.08.13 n. 101, conv. dalla L. 30.10.13 n. 125, che dà l’interpretazione autentica dell’art. 24, c. 4, sopra indicato. Detto d.l. n. 101 del 2013 prevede, infatti, che per i lavoratori dipendenti delle pubbliche amministrazioni il limite ordinamentale, previsto dai singoli settori di appartenenza per il collocamento a riposo d’ufficio e vigente alla data di entrata in vigore del decreto-legge stesso, non è modificato dall’elevazione dei requisiti anagrafici previsti per la pensione di vecchiaia.

Il suo superamento, precisa la norma, è possibile solo per il trattenimento in servizio o per consentire all’interessato di conseguire la prima decorrenza utile della pensione.

Inoltre, la disposizione nel prevedere che “il proseguimento dell’attività lavorativa è incentivato …dall’operare dei coefficienti di trasformazione calcolati fino all’età di settant’anni…” non attribuisce al lavoratore un diritto di opzione per la prosecuzione del rapporto di lavoro, né consente allo stesso di scegliere tra la quiescenza o la continuazione del rapporto, ma prevede solo la possibilità che, grazie all’operare di coefficienti di trasformazione calcolati fino all’età di settanta anni, si creino le condizioni per consentire ai lavoratori interessati la prosecuzione del rapporto di lavoro oltre i limiti previsti dalla normativa di settore.

La chiara indicazione delle Sezioni Unite rende conseguente affermare che la norma, nell’incentivare il proseguimento del rapporto sino al 70° anno, non individui un diritto soggettivo in capo al lavoratore indipendentemente dalla volontà comune del datore di lavoro. Essa dispone una situazione di semplice favor nei confronti del prolungamento del rapporto che, considerando i “fermi … limiti ordinamentali dei rispettivi settori”, presuppone e richiede la comune volontà delle parti del rapporto sulla prosecuzione dello stesso.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso.

Testo completo della sentenza

(Le foto sono tratte da www.cortedicassazione.it)